Afghanistan, le atlete alle Olimpiadi non bastano: a 3 anni dal ritiro Usa, le donne ancora intrappolate nell’inferno talebano

16 Ago 2024 17:04 - di Lorenza Mariani
donne Afghanistan

L’eredità lasciata al popolo afghano da Biden che decise il ritiro delle truppe statunitensi, i civili – e soprattutto le donne – la stanno pagando. Anzi: scontando ogni giorno. A una manciata di anni dal ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan, e dopo un ventennio dall’inizio del conflitto, Kabul è persa e tornata sotto una cappa oscurantista senza possibilità di intravedere la luce in fondo al tunnel.

Afghanistan, a 3 anni dal ritiro Usa le donne ancora scontano l’eredità lasciata da Biden

Una realtà che la popolazione afghana tocca con mano ogni giorno da quel fatidico maggio 2021, quando venne avviato il ritiro dal Paese delle ultime truppe statunitensi e della coalizione Nato. A stretto giro dall’annuncio, e in concomitanza con la ritirata, come noto le forze talebane lanciarono attacchi in diverse aree del Paese, riconquistandone la parte settentrionale.

Afghanistan, donne e bambine vittime della restaurazione talebana

Poi, il 15 agosto, la restaurazione ufficiale: con la vecchia guardia che entrò nella capitale e si riprese il potere, a piene mani. Eppure, sin dal primo istante il presidente Joe Biden difese la decisione del ritiro: «Non potevamo restare per sempre». Eppure, quanto lasciato alle sue spalle avrebbe causato una delle peggiori crisi in politica estera che si sarebbe ritrovato a gestire dall’inizio della sua presidenza, oggi agli sgoccioli…

I report da Kabul: 1,4 milioni di ragazze afghane private dell’istruzione secondaria

Nel frattempo, negli ultimi tre anni, e dal minuto dopo il trionfante ingresso a Kabul delle milizie sciite e la fuga rocambolesca del personale americano dall’aeroporto, i talebani ristrappato lo scettro del potere, hanno «deliberatamente privato» 1,4 milioni di ragazze afghane dell’istruzione secondaria, ricostituendo un governo – tornato al potere a venti anni esatti dalla cacciata imposta dall’esercito americano dopo la guerra d’invasione del Paese, conseguenza dell’11 settembre – che non è stato riconosciuto dalla comunità internazionale.

Un dato su tutti, allora, testimonia il dramma in corso nel silenzio internazionale: quello sulla privazione dell’istruzione secondaria per le donne, che l’Unesco ha pubblicato e il sito di Rainews 24 rilanciato. Che denuncia: «L’Afghanistan è oggi l’unico Paese al mondo a vietare l’accesso all’istruzione alle ragazze di più di 12 anni e alle donne», fa sapere la direttrice generale dell’agenzia Onu per l’educazione, la scienza e la cultura, Audrey Azoulay, in un comunicato. «Il diritto all’istruzione non deve subire alcun negoziato né alcun compromesso. La comunità internazionale deve restare pienamente impegnata per ottenere la riapertura incondizionata delle scuole e delle università per le ragazze e le donne afghane» aggiunge Azoulay.

Amnesty International: 3 anni di talebani e di mancanza d’azione

E non è certo tutto. Perché, come ha denunciato contestualmente Samira Hamidi, campaigner di Amnesty International per l’Asia meridionale, lamentando la mancata azione da parte della comunità internazionale nel difendere le persone afghane dalle continue violazioni dei diritti umani, «la comunità afgana è alle prese con tre anni di frustrazioni ignorate. Mentre le autorità di fatto talebane compiono violazioni dei diritti umani e crimini di diritto internazionale, soprattutto contro le donne e le bambine, nell’assoluta impunità». Aggiungendo a stretto giro: «Tre anni dopo, la totale assenza di qualsiasi misura concreta per affrontare la catastrofe dei diritti umani in Afghanistan è fonte di vergogna per il mondo».

Afghanistan, le denunce delle donne in prima linea

Come evidente, insomma, non solo i talebani non sono chiamati a rispondere delle violazioni e dei crimini commessi e perennemente in corso. Ma la comunità internazionale – denuncia sempre Hamidi – «non ha neanche saputo trovare una direzione strategica per impedire ulteriormente tutto questo».

La totale mancanza di «una direzione strategica per impedire tutto questo»

Amnesty International ha consultato oltre 140 tra difensori e difensore dei diritti umani, personalità accademiche, donne attiviste e coinvolte nelle manifestazioni, persone giovani e, infine, rappresentanti della società civile e dell’informazione in 21 province dell’Afghanistan e rappresentanti della diaspora in dieci paesi: Belgio, Canada, Francia, Germania, Italia, Pakistan, Regno Unito, Spagna, Stati Uniti d’America e Svizzera. La, da dove migliaia di ragazze e donne afghane rifugiate documentano un apartheid di genere e una crisi umanitaria afghana senza precedenti.

Donne in Afghanistan: il tragico bollettino di una guerra quotidiana

Una realtà in cui, come riporta sempre Rainews 24, in Afghanistan registra un’«economia a crescita zerodisoccupazione record. Povertà alle stelle. Un terzo dei 45 milioni di afghani che sopravvive soltanto con pane e the. Aiuti umanitari ridotti all’osso. Depressione e suicidi femminili in aumento. Clima di paura diffuso».

Questo il tragico bollettino di guerra quotidiana che arriva ciclicamente dall’Afghanistan, dove oltretutto, ogni minimo «mancato rispetto alla legge islamica vigente comporta intimidazioni. Persecuzioni. Punizioni corporee, anche pubbliche. Fino all’arresto e alla tortura in carcere».

E oltre al danno, la beffa. «Alle donne che hanno perso autonomia, lavoro e status economico dicono che è ciò che meritano. Che il ritorno dei talebani è una svolta positiva per chiudere la bocca a coloro che predicano l’adulterio in nome dei diritti umani e dei diritti delle donne», ha raccontato Razia, una donna in prima linea sul fronte dei diritti umani della provincia di Kunduz.

Sofferenza, frustrazione, rabbia e una solitudine profonda

«Ci avevano detto che i talebani erano cambiati, che non dovevamo compromettere gli sforzi di pace, che il mondo sarebbe stato dalla nostra parte – aggiunge Nazifa, un’insegnante della provincia di Mazar-e-sharif –. Ma oggi – conclude amaramente poi – viviamo sole con le nostre miserie»… Sofferenza, frustrazione, rabbia e solitudine profonda, per cui non bastano. E non possono bastare, neppure i coraggiosi sforzi dimostrativi di riaffermazione dei diritti inalienabili degli esseri umani, e di vicinanza ad un popolo che soffre, sostenuti dalle atlete afghane protagoniste delle recenti Olimpiadi.

E in tutto ciò, le atlete afghane alle Olimpiadi non possono bastare…

Come ad esempio il gesto significativo della velocista Kimia Yousofi che, arrivando ultima nei 100 metri femminili per il proprio Paese, ha voluto esibire sul pettorale le scritte “Education” (“Educazione”) e “Our rights” (“I nostri diritti”). O come quello di un’altra protagonista delle gare, la breaker Manizha Talash, che faceva parte della squadra dei Rifugiati, che durante la prova per le prequalifiche, si è tolta la felpa nera che indossava per mostrare un panno celeste, una sorta di mantello, con la scritta in bianco “Free Afghan women”, “Donne afghane libere”. Perché le donne afghane, le loro figlie, e gran parte della popolazione civile locale, libera non è. Nemmeno lontanamente…

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