Democrazie tra affluenza e astensionismo: vi spiego perché tra Bocchino e Cacciari il filosofo aveva torto
Purtroppo per lui, Massimo Cacciari – che con l’età diventa meno saggio ed equilibrato – aveva torto e Italo Bocchino ragione, l’altro giorno ad Accordi e Disaccordi, in onda sulla rete “Nove”: le democrazie stabilizzate non dipendono dal tasso di partecipazione alle elezioni, per una serie di problemi. Vediamo di ragionarci su. A monte, quando vince la destra – soprattutto ora che alle europee e nel confronto tra i leader del Vecchio Continente, ha vinto soprattutto lei, la premier italiana, Giorgia Meloni – c’è una costante, un capitolo di “guerra delle parole” fitto e pronto: la droite vince perché molti italiani non vanno a votare. Come se coloro che si astengono, fossero tutti elettori di sinistra e non equamente distribuiti tra le appartenenze.
Democrazie, voto, astensionismo e lo scontro Bocchino-Cacciari in tv
Poi, alle ultime elezioni per il rinnovo del Parlamento di Bruxelles e Strasburgo, ha avuto successo la destra, ma anche la sinistra di Pd e della lista Bonelli-Fratoianni e non é stato possibile scagliare con forza l’argomento anti-Meloni, da parte dei left. Lo hanno fatto con stop and go. Insomma, non gli conveniva. E l’argomento ora é brandito come una scimitarra soprattutto dai Cinque Stelle, caduti nel profondo della propria crisi politica. Banalmente.
In Europa vota solo metà degli elettori, ma da 20 anni
Vediamo di mettere sul tavolo qualche dato. Il primo: in Europa la media di affluenza alla consultazione dell’8 e 9 giugno scorsi é stata del 51%; il minimo lo hanno registrato la Croazia (21,35%) e i Paesi Baltici (poco sopra il 30 %). Il massimo lo hanno raggiunto il Belgio (poco meno del 90%) e la Germania (quasi al 65%). L’Italia col suo 48% é in linea con Francia, Spagna, Polonia, Austria: nazioni delle quali alcune un po’ sopra, altre un po’ sotto la metà dei votanti. Letture di parte non sarebbero neutrali: i sistemi politici e i governi sono di colore variegato.
Impossibile anche dare interpretazioni contingenti legate all’avanzare dei partiti “populisti”. É da venti anni che in Europa vota la metà o poco meno, dei cittadini dell’Unione aventi diritto: nel 2004, il 45,74%; nel 2009 il 42,97%; nel 2014, il 42,61%; nel 2019 il 50,66%, fino al 2024, appunto il 51,08. Una tendenza stabile, né osservata, né commentata, soprattutto a sinistra (ma per la verità neppure nel centrodestra). Come mai? Perché – come sopra accennavo – l’affluenza é un’arma che la “gauche” mette in campo all’occorrenza, ad usum delphini. E stavolta non c’erano le condizioni per allestire tutto l’armamentario verbale contro la droite.
Un dato politically incorrect ma fisiologico
Secondo: considerato che non é “colpa” dei governi di destra – definiti retrivi, anti popolari et cetera – perché vota in media soltanto la metà degli europei? Risposta: perché é un dato fisiologico, normale nei sistemi democratici. Potrà dispiacere, andrà contro il politically correct, ma é un elemento reale, diffuso. E stratificato negli anni. E perché accade? La questione é molto dibattuta dagli studiosi. Immagino sarà sconvolgente per i confidenti nelle “magnifiche sorti e progressive”, ma per tanti di loro le democrazie per funzionare non hanno bisogno di un’affluenza alta, ma mediana: più o meno quella di oggi che alimenta il rito delle urne.
Molte ricerche depongono per questa tesi: la partecipazione politica é selettiva. Lo é in re ipsa e non può che essere così. Perché essa non si riduce – non deve e non può limitarsi – al solo esercizio del voto. Lester Milbrath ha individuato ben quattordici forme graduali del “prendere parte” dei cittadini, che vanno dal votare, ad avviare una discussione politica. Dal convincere altri a votare in un certo modo, a diventare soggetto politico attivo di un partito, a candidarsi a cariche pubbliche, a impegnarsi per fare fund raising per il proprio partito. Il mero andare a votare é una delle forme di adesione alla democrazia, a più bassa intensità.
Le democrazie convivono con tassi bassi di affluenza al voto?
La prima conclusione: le democrazie stabilizzate convivono con tassi bassi di affluenza al voto. Seymour Martin Lipset ha addirittura sostenuto che un certo livello di apatia fa bene a una democrazia. «La non-partecipazione può essere un segno positivo per chi governa», commenta Donatella Della Porta. E gli studi di Samuel Huntington che era di fede democrat – guidava la pianificazione della sicurezza per il Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca al tempo della presidenza Carter – noto al grande pubblico per il suo volume Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale (2000) concludono che il problema dei Paesi sviluppati é una sorta di «eccesso di democrazia». Tesi secondo la quale l’efficienza delle democrazie richiederebbe «una qualche misura di apatia e disimpegno da parte della popolazione». É una riflessione estrema? Forse, ma é corredata da serie analisi e rigorosi sondaggi.
Inquietudini e risposte: demos europeo e agenda dell’Unione
Non é gradevole, ma bisogna tenerne conto nel discorso pubblico; facendo i conti con le inquietudini che ci porta addosso come cittadini. Ci sono rimedi? Risposte possibili? C’è di certo da fare una grande riflessione sull’inesistenza di un demos europeo e su insufficienti meccanismi di scelta popolare dei vertici istituzionali di Bruxelles. Un tema complesso che – con una buona dose di realpolitik e senza tentazioni allo strafare ideologico – é necessario entri nell’agenda delle famiglie politiche e del prossimo “governo” dell’Unione.