Mario Tobino e il sogno della follia “felice”. La Fondazione, il manicomio, la sfida all’ideologia di Basaglia
“Dolorosa follia, ho udito la tua voce” era il titolo di un articolo destinato a fare la storia della psichiatria italiana uscito sulla “Nazione” il 7 maggio del 1978. Quarantasei anni fa, sembra ieri. Lo firmava il dottor Mario Tobino: qualcuno di molto, molto più rilevante di un semplice medico dei pazzi di un manicomio sperduto nell’entroterra versiliano. Lo scrittore, vincitore di uno “Strega” e di tanti altri premi letterari, da psichiatra cocciuto ed esperto, in quelle righe tornava sul luogo del delitto, la “scandalosa” critica alla riforma dei manicomi che da lì a qualche giorno sarebbe stata approvata in Parlamento e su cui già aveva scritto un articolo che aveva fatto molto discutere. Quella “rivoluzione fredda” firmata dal “nuovo che avanzava”, il dottor Franco Basaglia – ancora oggi celebrato come quello che “ha chiuso i manicomi-lager” e liberato i pazzi italiani con un’enfasi degna del 25 Aprile – lo mandava, come si suol dire, “ai pazzi”.
In realtà Tobino aveva una strategia di “resistenza” alla quale i suoi colleghi avevano abboccato: nel primo articolo sulla “Nazione“, “Lasciateli in pace, è la loro casa“, era stato così esplicito e coraggioso da provocare la dura reazione dei suoi colleghi che si preparavano a festeggiare la “svolta”, nel nome di un’ideologia, tipicamente di sinistra, che immola i contenuti ai simboli, la pratica alla teoria, il dettaglio al principio generale, pur giusto, come per la chiusura dei “lager”. Un po’ quello che accade oggi con l’aborto, che nessuno vuole mettere in discussione ma su cui è vietato fare perfino un approfondimento su come è materialmente applicata la “194”. Ed ecco che allo psichiatra, peraltro “partigiano” e antifascista, come raccontò nel libro “Il Clandestino“, fu necessario vergare un secondo scritto, per ribadire a chi gli era saltato addosso che lui parlava del “dolore udito” come qualcosa che non scaturiva assolutamente da catene o maltrattamenti, come qualcuno cercava di far credere. Era il disagio della “normalità” che riaffiorava dalla follia.
Psichiatria, nel 1978 inizia il duello tra Tobino e Basaglia
Lesa maestà. L’indignazione della categoria indottrinata dalla dottrina “Basaglia” contro lo psichiatra viareggino che aveva il pallino del manicomio “comunità”, fu furente, anche perché nel frattempo l’ideologia politica, che a sinistra pervadeva anche le categorie mediche, aveva adottato anche colui che fu poi definito lo psico-comunista.
Ma quelle idee “blasfeme” di Tobino saranno destinate a lasciare il segno nel dibattito sulla legge “180” anche negli anni a venire. Oggi Basaglia viene considerato il Dio della follia “liberata”, nonostante le statistiche parlino di suicidi e omicidi di matti lasciati alla mercé di famiglie incapaci di gestirli o di un’autogestione degli stessi psicofarmaci perfino più pericolosa della loro mancata assunzione. La battaglia per le idee e per la memoria del professore viareggino viene invece portata avanti da una Fondazione diretta dalla nipote Isabella Tobino, battagliera professoressa che si è innamorata tardi – ma perdutamente – di suo zio, e oggi combatte contro i pregiudizi e la burocrazia per ottenere fondi e attenzione utili a stampare materiale da mettere a disposizione di studiosi e giovani e a proteggere ciò he resta del manicomio di “Maggiano-Magliano”, che lei presidia fisicamente con feroce determinazione e il supporto un furbissimo bassotto.
La dignità dei malati e l’esistenza della follia
“Se non si scoprivano gli psicofarmaci, si sarebbero potuti liberalizzare i manicomi?”, si chiedeva Tobino, che nella struttura di Maggiano, in provincia di Lucca, aveva vissuto fianco a fianco dei suoi malati per quarant’anni, come fossero fratelli, figli, amici, persone con dignità, comunque, non numeretti da disperdere nel mondo. Dalle sue esperienze, lo psichiatra-scrittore aveva tratto i suoi lavori più belli, “Le libere donne di Magliano”, “Per le antiche scale”, “Gli ultimi giorni di Magliano”, che ovviamente è un espediente letterario per parlare del manicomio di Maggiano. Che Basaglia, che stimava Tobino, non conosceva, evidentemente: era cresciuto nell’epoca post psicofarmaci, immaginava di poter ammazzare qualcosa che non esisteva, se non nelle menti dei pazienti dei manicomi: la follia.
Il medico viareggino, invece, con un approccio diametralmente opposto, era arrivato alla conclusione che la follia non potesse mai essere compressa o annegata o stritolata dalle medicine, perché parte dell’essere curato, e al massimo poteva essere “mascherata” con i farmaci, ma svuotando la coscienza e finanche l’anima del malato, così da anestetizzarlo rispetto a una vita che li faceva gridare dal dolore ma anche dalla gioia. Le urla erano vita, a Maggiano, e Tobino le riconosceva una ad una. “La cosa che tanto mi dispiace – scisse nei suoi articoli all’alba della riforma Basaglia – e mi addolora è che ancora i manicomi siano da molti considerato prigioni e invece sono cambiati. Non posso assicurare di tutti, in Italia, ma per esempio quello di Lucca, dove modestamente presto servizio, mi pare libero e umano, chi vi è ricoverato viene trattato con ogni affettuosità“. Del resto, come confutare la tesi che il manicomio vada abolito perché qualcuno non è umano, come se dovessimo chiudere le carceri solo perché esiste Guantanamo? Ma non per questo Tobino non condivideva la tesi di Basaglia secondo cui la coercizione, come gli psicofarmaci, non fanno bene ai malati, ovunque essi siano. L’obbligo non è mai cura, se non per tutelare in primis il malato.
Il punto, ancora oggi irrisolto, è che alternativa dare ai manicomi. Oggi esistono i Dipartimenti di Salute mentale, le strutture intermedie, le Comunità terapeutiche riabilitative psichiatriche, le Rems che ospitano chi ha commesso reati, ma l’esercito dei “folli” non diagnosticati o non collocati, schegge impazzite nelle famiglie e per strada, sono ancora un pericolo per se stessi e per gli altri. Del resto, lo stesso Basaglia aveva parlato della sua legge, all’indomani dell’approvazione, come di “transitoria, fatta per evitare il referendum, e perciò non immune da compromessi politici”. “Attenzione quindi alle facili euforie. Non si deve credere di aver trovato la panacea a tutti i problemi del malato di mente con il suo inserimento negli ospedali tradizionali. La nuova legge cerca di omologare la psichiatria alla medicina, cioè il comportamento umano al corpo. Ma è come se volessimo omologare i cani alle banane”.
La Fondazione diretta dalla nipote Isabella
Tobino, che nella vita si era accompagnato a donne bellissime e famose, come la sua ultima compagna, Paola Olivetti, ex moglie di Adriano, non era folle ma amava la vita e sapeva riconoscere la gioia, anche nei malati. Perché con loro divideva tutto, anche i bagni. Visitare l’ex manicomio di Maggiano dà la conferma dei livelli di immedesimazione tra il dottore e la “casa dei matti”: lo dimostrano le pantofole vicino al lettino molle e piccolo, per un omone come lui, la scrivania con la macchina per scrivere col tamburo sempre fermo su una parola incompleta, i disegni dei pazienti nei corridoi dei reparti. Perfino nel “numero 6”, quello che Cechov aveva descritto in un suo romanzo come il cimitero degli elefanti folli, l’approdo definitivo dei malati che mai sarebbero più usciti e nel quale lo stesso psichiatra finisce, pazzo più dei suoi pazzi. “Il mio amico Demetrio spesso mi annuncia che anche io finirò qui”, scrive Tobino nel suo libro. “Mio zio non lo avrebbe mai ammesso, ma forse era proprio quello il suo desiderio quello di provare fino i fondo e in prima persona quello che aveva studiato per una vita”, racconta Isabella Tobino nella sede della Fondazione nata nel 2006, e a tale complessa e ambiziosa missione intende rimanere fedele nei prossimi anni. Una Fondazione che oggi riceve supporto dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, dall’Azienda Usl Toscana Nord Ovest, dalla Provincia, dal comune di Lucca e il comune di Viareggio.
Anche lei, Isabella, è una “libera donna di Magliano” perché dallo zio ha colto la curiosità per gli altri, la cura dello studio scientifico e la voglia di testimoniare la storia, in generale, e quella del grande psichiatra e del suo ospedale, ai giovani che vengono in visita a Maggiano. “Mio padre Pietro, quanto morì il fratello Mario, secondogenito di una famiglia di farmacisti, decisi di andare alla scoperta della sua opera, sia letteraria che scientifica. E mi coinvolse, per poi lasciarmi l”eredità della memoria”.
Oggi si fida di chi ha amato lo zio fin da bambino fino al punto da lasciarlo stendere sul lettino da analisi del suo studio. E ne coglie tutta l’emozione.