I cento anni di Franco Grazioli, ultimo repubblichino: “Una vita piena di sogni e di assalti”
Parlare dei cento anni che Franco Grazioli compirà domenica 19 maggio è compito arduo. Occorrerebbe parlare del Novecento, il secolo che ha attraversato lui, ultimo repubblichino, tra amori, passioni, illusioni, delusioni. Io l’ho conosciuto quando ero praticante, al Secolo, e lui veniva con Ugo Franzolin, che curò la pagina culturale del quotidiano fino al 1967. Venivano a trovare Aldo Giorleo, direttore responsabile. Li univa la comune esperienza nella Rsi e le critiche verso il nuovo corso della destra post-missina. Si sentivano, loro, di un’altra pasta. Poco malleabile. Poco adattabile. A volte cantavano tutti e tre insieme. Distribuivano anche consigli a noi, tipo “se vuoi fare il giornalista devi leggere Kafka e Dostoevskij”. Questo era Franzolin. Grazioli invece scriveva poesie. Giorleo ci correggeva gli articoli. Guai a disturbare i loro simposi nostalgici. Giorleo ti invitava a non rompere i cosiddetti…
Torniamo a Franco Grazioli. Che ancora conversa amabilmente al telefono. Si informa sempre del giornale, dei familiari. Con garbo. “Domenica festeggi?”. “Ma non lo so… vedremo”. Poi racconta della sua scrivania che viene dalla Normandia, che lascerà a sua nipote, dove ha scritto i suoi racconti, le rime, ha messo in ordine i ricordi. A cento anni i ricordi si affollano, implacabili. A cominciare da quelli dei commilitoni del battaglione Lupo della X Mas, dove Grazioli si arruola dopo l’8 settembre 1943. “Imbracciai il fucile per la patria, noi non eravamo i fascisti della marcia su Roma, eravamo giovanissimi e con la patria stampata dentro”. Quella è “la mia vera identità”.
E del fascismo che ne facciamo? Lo consegniamo alla storia? “Le idee vivono se sono valide, se no muoiono”. “Guarda che oggi vige la tesi che il fascismo fu un crimine e i fascisti tutti criminali”. Ride. “Criminali? basta solo ricordare come loro hanno ucciso Luisa Ferida e Osvaldo Valenti. I criminali stavano da tutte e due le parti”. “Non hai conosciuto partigiani valorosi?” “Ma certo. Ma non penso al fascista o al partigiano, penso all’uomo. L’uomo che si sacrifica per le sue idee è un combattente degno di onore”. Poi mi racconta di un appartamento che era la base dei partigiani della banda della bicicletta e che loro riuscirono a intercettare a Milano. E ancora del campo di concentramento da cui è fuggito. Poi dice: “Ma che mi stai intervistando? Ah già, tu sei giornalista…”.
Gli chiedo se ha mai creduto nella pacificazione dopo la guerra. “Impossibile. Noi ex combattenti non l’abbiamo mai chiesta. E nemmeno loro”. “Ma dopo la guerra non deve finire il concetto di nemico?”. “No. Si modifica. Io non ho cercato scambi con loro. Stavo con i miei. In fondo la mia vita è stata la vita di un reduce, però sempre piena di entusiasmo”. “Che effetto ti fa oggi questa riesumazione del fascismo come aggettivo dispregiativo?”. Mi risponde che Giorgia Meloni non è fascista, che gli antifascisti non hanno pace. E lui a volte crede invece di averla e parla con Dio e gli chiede perché lo tiene ancora quaggiù. Gli chiedo dei tedeschi: com’era conciliabile l’amor di patria con l’asservimento della stessa ai tedeschi? “Domanda imbarazzante. Ma io non sono mai stato servo dei tedeschi. Di quello che facevano nei campi di sterminio non sapevamo. Inconcepibile. Disumano”. Gli chiedo di Mussolini. Ha fatto solo cose cattive? “Ha fatto molti sbagli”.
La sua vita è a tutti gli effetti un romanzo d’avventura. Fin da bambino – dice – “sentivo un senso di ribellione fortissima”. Cresciuto con la madre e col nonno calcografo, vede nel fascismo l’incarnazione del patriottismo più nobile. A fine gennaio del 1944, a vent’anni, si arruola nella Rsi e viene inquadrato nel Battaglione Lupo. “Il paese era allo sbando, vedevo le divise abbandonate per terra…”. Alla fine della guerra, con altri commilitoni, viene fatto prigioniero e trasferito al 211 Pow Camp in Algeria. Al ritorno in patria lo aspetta il destino dei vinti: emarginato e senza lavoro, decide di arruolarsi nella Legione Straniera. “Ci pensai tutta la notte, seduto su una panchina vicino al porto di Marsiglia, e poi decisi di andare, di dare sfogo al mio istinto di libertà”. Ed è di nuovo guerra: prima in Indocina, poi in Algeria. Come in una sorta di dannazione, si trova di nuovo dalla parte degli sconfitti con l’unica consapevolezza di aver salvato l’onore e di non aver rinunciato ai propri ideali.
“Quando lasciammo il porto di Algeri cantavamo Je ne regrette rien, le sirene delle navi suonarono tutte assieme. Io piansi“. I ricordi, conferma, sono implacabili. La scrittura è la scappatoia per venirne fuori. Nel 2019 Grazioli ha pubblicato con Mursia le sue memorie, Il lupo va alla guerra. Nel romanzo uno sconosciuto incontrato sul treno che da Genova porta il protagonista Francesco Olivieri (che è lo stesso Franco Grazioli) a Marsiglia gli dice: “In questo momento la giustizia la scrivono i vincitori ma verrà un momento in cui ciascuno di noi farà un riassunto della propria vita”. Per Grazioli il momento è arrivato quando ha ripreso in mano il suo diario e ne ha fatto un romanzo. Un’altra missione compiuta. Il riassunto della sua vita è pieno di assalti e di sogni. “La furia che avevo dentro, adesso, si è acquietata un po’…”. Ci sono voluti cento anni. Si merita di festeggiare, lasciandoci con un ultimo consiglio: “Mai odiare però, questo non si deve fare”.