Guardare alla Costituzione nell’ottica del riformismo sociale: per attuarla oltre anacronistiche divisioni
Il 1° maggio 2024 sembra portare con sé un’aspettativa nuova, che va rimarcata e colta nella sua essenza: la prima, concreta realizzazione normativa, in Italia, del dettato partecipativo. E’ il segno dei tempi. Dopo decenni di dibattiti, ma soprattutto di aspettative mai concretizzate, a causa del prevalere, nelle relazioni sociali e negli orientamenti politici, di una visione classista e conflittuale, si è registrato negli ultimi mesi un interesse “trasversale” rispetto alla volontà di dare piena attuazione all’art. 46 della Costituzione italiana, il quale riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende. Il risultato è stato il varo di un testo di legge che dovrà andare, a breve, in discussione alla Camera, con un’ampia maggioranza parlamentare e la condivisione di due confederazioni sindacali, la Cisl e l’Ugl. Vedremo finalmente, in quella sede, la posizione della sinistra, da quella più radicale alla “riformista”, sempre molto reticente sul tema.
L’approvazione di una legge attuativa dell’art. 46 della Costituzione offre l’occasione, in questo 1° maggio 2024, per riaprire una seria discussione sugli orientamenti sociali della nostra legge fondamentale, troppo spesso fraintesa e snaturata. E’ noto come la Costituzione italiana sia il frutto del compromesso tra diversi filoni politici e culturali. Ne sono testimonianza i verbali delle commissioni , che fotografano le tesi a confronto ed il lavoro di integrazione-rettifica, che ha portato al testo definitivo. Particolarmente significativo, da questo punto di vista, il dibattito sui temi del lavoro, della giustizia sociale, del ruolo del sindacato, che innervano tutto l’impianto costituzionale, a cominciare dall’art. 1, autentico fondamento programmatico della nascente Repubblica, “fondata sul lavoro”, a cui, in sede di voto, venne opposta, in alternativa, la definizione, dalle evidenti ascendenze classiste, “repubblica democratica di lavoratori”, respinta per soli dodici voti.
Lo citiamo, in occasione della festa del 1° maggio 2024, proprio perché crediamo che sia maturo il tempo per una riflessione-riconsiderazione del valore della nostra Costituzione, al di fuori della vecchia vulgata classista e delle radicalizzazioni interpretative, che ne hanno segnato la storia, falsandone spesso l’applicazione, anche nella prospettiva, a livello legislativo, di un chiaro impegno “partecipativo”. In troppe occasioni, soprattutto negli Anni Sessanta-Settanta, la nostra carta fondamentale è stata trasformata nello strumento attraverso cui sperimentare lo scontro sociale, svuotandone così il senso reale, la vera sostanza. E’ accaduto, partendo dalla stessa concezione del lavoro, quello citatissimo del primo articolo della Costituzione, spesso visto in chiave classista, laddove invece il
dettato costituzionale, all’art.35, lo tutelava “in tutte le sue forme ed applicazioni”. A questa idea di lavoro bisogna iniziare a guardare, in occasione della festa che lo celebra, dando ad esso il pieno e totale riconoscimento, senza alzare perciò vecchi steccati, quanto piuttosto riportandolo al suo valore fondativo per la nostra coesione sociale e alla sua dimensione partecipativa.
Lo dice l’art.46, fino ad oggi disatteso, individuando in esso la reale volontà di realizzare l’“elevazione economica e sociale del lavoro”, non solo all’interno delle aziende, ma nel diritto, costituzionalmente garantito, ad “una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro” (art. 36) all’attenzione per le esigenze familiari, alla tutela della donna lavoratrice, alla difesa e valorizzazione degli inabili. In questo ambito, proprio alla luce del crollo dei vecchi miti della conflittualità sociale, il tema è oggi “rinegoziare” i salari sulla base di una remunerazione partecipativa, la quale superi i vecchi (e nuovi) meccanismi salariali, collegando la retribuzione ai risultati d’impresa attraverso un sistema collaborativo fra i dipendenti ed il management. Con ciò realizzando un sistema retributivo legato ai profitti, in un mix tra salario fisso e quota variabile, rendendo i lavoratori partecipi dei risultati conseguiti e nel contempo avviando, su base aziendale, quelle politiche “ridistributive” più volte annunciate, ma mai concretamente realizzate.
Dal mero livello salariale può insomma partire un più organico processo partecipativo, collegato, nelle aziende, alla trasparenza informativa, alla codeterminazione e alla programmazione: un salto di qualità essenziale per rendere realmente efficienti le scelte aziendali, soggette alle trasformazioni tecnologiche, e favorire nuove dinamiche di sviluppo. Nell’ambito della “partecipazione” tout court (finalizzata a rendere i lavoratori partecipi dei destini dell’impresa) la “partecipazione finanziaria” rappresenta, del resto, una componente essenziale, laddove – come si può leggere in Il Codice della partecipazione. Contributo allo studio della partecipazione dei lavoratori (Giuffrè, 2011) di Roberta Caragnano– “comprende tutte le ipotesi in cui i prestatori di lavoro siano coinvolti – in quanto tali e in ragione della attività lavorativa svolta – nei risultati economici dell’impresa e, in generale, si attua nelle forme della partecipazione agli utili e della partecipazione azionaria dei lavoratori, quest’ultima da realizzarsi anche con la creazione di fondi di investimento collettivo”. E’ ritrovando laicamente il valore spirituale e materiale del lavoro che bisogna “tornare” alla Costituzione. Per scoprirla e sentirla per ciò che è realmente, liberandola dalle strumentalizzazioni e dalle manipolazioni ideologiche.
Alla luce di una nuova aspettativa “partecipativa” il 1° maggio si eviti allora di lasciare l’idea costituzionale del lavoro in mano agli esegeti di parte. Riprendiamoci piuttosto, anche da destra, la prospettiva “programmatica” della Costituzione, per quel tanto che culturalmente ci appartiene e per realizzarla laddove essa è ancora inapplicata: una grande opportunità per un nuovo riformismo sociale, che ponga il lavoro al centro dell’ iniziativa politico-sociale e che sia “premiante” per i lavoratori; una grande occasione di confronto e di integrazione sociale piuttosto che un elemento di divisione, come è stato per tanti, troppi anni.