Ma quanto fattura l’antifascismo: il “postalmarket” e clava politica del Terzo millennio

30 Apr 2024 6:59 - di Andrea Venanzoni

Ormai completamente entrato nel personaggio di eroe e profeta, forse sulla scia della lettura dell’ottimo romanzo “Il canto del profeta” di Paul Lynch e chiaramente dopo aver negato espressamente di essere l’una cosa e l’altra, durante le celebrazioni del 25 aprile Antonio Scurati ha sciorinato la sua lectio magistralis antifascista tra piazze gaudenti e festanti dove il suo monologo è divenuto l’equivalente dell’Heineken per il festival Coachella. Con sano gusto per il guizzo equilibristico, un po’ paradossale ma che fa sempre molta presa su quelle menti polarizzate che in Giorgia Meloni scorgono un arcigno Caudillo biondo, Scurati è andato oltre, continuando ad affermare negando.

Quando sento nominare la parola cultura metto la mano alla pistola”: la frase è di Goebbels. Non voglio affatto paragonare l’attuale classe dirigente italiana a Goebbels, però è vero che c’è un discredito dell’intellettuale da parte di questa destra estrema e populista”, così Scurati dal palco, citando Goebbels e il governo nello stesso periodo, ma negando equivalenze e paragoni e lamentando poi il maglio censorio e le mani del potere di destra sugli organi di informazione e il furioso cipiglio contro gli intellettuali.

Ora, vanno bene le licenze poetiche, in genere formula comoda per giustificare e assolvere gli errori storici che punteggiano romanzi che romanzi e non saggi storici rimangono, come già aveva annotato Galli della Loggia, però visto che ormai Scurati pontifica ex cathedra gli va, serenamente, pacatamente, fatto rilevare che la famosa e famigerata frase, contrariamente a una credenza diffusa assai, non è di Goebbels ma veniva utilizzata da Baldur Benedikt von Schirach il quale a sua volta l’aveva fatta sua prendendola di peso da un dramma di Hans Johst. E la frase non era nemmeno esattamente come viene riportata di solito ma qui siamo già oltre. Infortuni che capitano, magari se ci si prepara la trovata d’estro sui siti internet di citazioni.

Personalmente in tutta questa vicenda, come pure nello scomposto attacco del Rettore Tomaso Montanari all’articolo di Spartaco Pupo apparso su questi lidi, e spero non ci si adonti se lo definisco “scomposto” quell’attacco, perché non ci dormirei, io ci leggo soltanto del meraviglioso, legittimissimo ma del tutto impolitico marketing. Del capitalismo scintillante, sublime che con il magnete “antifascismo” attrae e costruisce professione, mestiere, carriera, abbronzatura mediatica. Brillano sotto i riflettori del brand “antifascista” i libri, i film, le fiction, le ospitate TV dell’impegno civile, di quegli intellettuali neo-resistenti per i quali, spesso, più che la apocrifa citazione goebbelsiana dovrebbe valere la meravigliosa parafrasi che Godard mise in bocca a Jack Palance ne ‘Il disprezzo’.Quando sento la parola cultura, metto subito mano al portafoglio”.

Il fascismo (intermittente) impazza negli scaffali…

Ho perso il conto di quanti libri sul fascismo siano stati pubblicati di recente. E per “recente” intendo l’ultimo anno, non l’ultimo decennio. Saggi, certo, ma pure tantissimi romanzi che vanno a pescare a piene mani, facendone fantasia, paradigma, metafora, nei tempi del Ventennio. Volumetti in alcuni casi che lambiscono il mai troppo biasimato “ur-fascismo” dell’altrettanto mai troppo biasimato Umberto Eco, aggiornandolo alla fenomenologia delle supercazzole intersezionali, con stile incomprensibile utilizzato da chi per farsi passare per intelligente deve spesso inventarsi le parole. Cosa che forse, forse, passa se sei Heidegger o Derrida o Latour, ma che invece cozza contro la muraglia del senso del ridicolo se sei un signor nessuno di provincia con alle spalle una tetra laurea discussa con una tesi sul transfemminismo intersezionale nel cinema tagiko.

Da quando Berlusconi discese in campo e vinse le elezioni, sono giusto trent’anni, a sentire questi intellettuali, scrittori, attori, sceneggiatori, musicisti, siamo calati in un fascismo oleografico e intermittente, che si materializza licantropicamente con la luna piena quando alle elezioni vince la destra ma che poi scompare magicamente quando al governo sale, per via elettorale o più probabilmente per vie di funambolismi istituzionali che avrebbero deliziato Jean Genet, il centrosinistra.

E così, un po’ per esorcismo, un po’ per catarsi quasi sadomaso, un po’ per rimpinguare i conti correnti, gli intellettuali si gettano nel fiume di lava del lavacro antifascista, coi loro romanzetti, i loro manualetti, i loro allarmi, i loro appelli, le loro petizioni, i loro girotondi, i loro affreschi di una Italia in orbace e baionette a cui non credono nemmeno loro e contro cui infatti possono continuare a dire, scrivere, insegnare, gridare quanto e come vogliono. E nel cui nome possono continuare a fatturare.

L’antifascismo come clava politica

Ma c’è un altro utilizzo dell’antifascismo da parte di certa sinistra, intellettuale e politica, molto più serpentino, ellittico e surrettizio. È l’antifascismo come clava politica, non solo strumento di delegittimazione di un avversario trasformato in schmittiano nemico in senso oggettivo, quel nemico contro cui tutto è consentito e permesso, ma come reazione identitaria e proprietaria del 25 aprile, come affermazione notarile di appartenenza a un culto quasi religioso che nella lotta partigiana non vede solo lotta di liberazione e di riaffermazione di libertà ma tentativo di affermazione del comunismo e delle sue varianti riattualizzate e supercazzolizzate, un po’ post-coloniali, un po’ postmoderne, un po’ fucsia.

La retorica antifascista che pretende la Canossa della destra, e non solo di questa, non è semplicemente fuffa semantica, espediente da polemichetta serale. È piuttosto la delimitazione di un campo grigio, di un hic sunt leones, ove albergano gli spettri di un altro non riconoscibile come soggetto meritevole di dialettica. Pure se Meloni si gettasse a corpo morto in ginocchio proclamandosi per novecento volte antifascista, fieramente antifascista, convintamente antifascista, non sarebbe sufficiente. Non basterebbe. Perché si rivendicherebbe a quel punto l’antifascismo ontologico, quello sostanziale, che si nutre delle scelte politiche: puoi pure dirti antifascista, ma poi se porti avanti certe politiche sei comunque fascista.

D’altronde questo è uno dei problemi enormi di questo antifascismo politico e strumentale, non valoriale. La definizione di “fascismo”. Seguendo lo slabbramento prospettico già proposto dal mai troppo biasimato Eco e dai suoi epigoni in sedicesimo, alla Murgia per intenderci che infatti ha sintetizzato con “fascista è chi il fascista fa”, mecojoni, direbbe Bombolo, il fascismo è ormai tutto, è un labirinto di abitudini culturali, di tic autoritari. Tutto ciò che si situa fuori da una precisa agenda politica e che, stringi stringi, sta sulle palle a certa sinistra.Fascista è Israele, fascisti in certa misura sono gli ebrei stessi, come visto nelle piazze dove resistenti jihadisti, maranza ormai assurti a nuovo CLN e paccottiglia centrosocialiota varia hanno dimostrato il loro livello di inclusività.

Fascisti sono i cattolici quando dicono cose cattoliche e smettono di parlare come Judith Butler. Fascisti sono i politici di sinistra quando osano utilizzare parole come sicurezza, controllo, governo dell’immigrazione, magari si fanno sfuggire che il 7 ottobre 2023 è stata una mattanza oscena e ripugnante, che l’Ucraina non è una enclave neonazista, che Putin è un invasore da condannare e che la NATO non è figlia di Satana. Fascisti sono i giovani iraniani che osano contestare le magnifiche sorti progressive imposte loro dagli ayatollah, epitome sacrale questi dell’anticolonialismo. Se lo insegnava Foucault, che dietro le sottane degli ayatollah ci si sbrodolò, chi mai saranno questi giovani impiccati, stuprati, repressi ferocemente, se non degli agenti al soldo del capitalismo fascista del Grande Satana altrettanto fascista americano?

L’abietta strumentalità di questo giochino è che c’è sempre qualcuno che si deve ergere al ruolo di geometra della perimetrazione dell’actio finium regundorum della rispettabilità istituzionale e di sentinella morale, per avvertire del ritorno del fascismo resiliente, di questo fascismo camuffato e magari suadente. E, guarda il caso, questa sentinella è sempre il paladino di una certa sinistra che punta la sua bacchettina molto poco magica contro tutti quelli che poco gli vanno a genio.

L’uso politico dell’antifascismo contro chiunque sia sgradito, ridotto per fini di delegittimazione a fascista o ur-fascista, è grottesco ma non meno pericoloso. Il candidato del centrodestra a Firenze, Eike Schmidt, si è ritrovato definito da una consigliera comunale fiorentina del PD una sorta di fascista che fa finta di non esserlo. La colpa di Schmidt: scendere nella piazza del 25 aprile, con fazzoletto al collo dell’UNED cui è iscritto da tempo.Già a gennaio, quando la candidatura di Schmidt tra le fila del centrodestra era ancora solo una ipotesi, altra esponente della sinistra aveva dichiaratose Schmidt è antifascista sbaglia parte politica. Come a dire, quelli di là non possono ontologicamente essere antifascisti. Lo possono essere solo se si inginocchiano non al monumento della Resistenza ma al nostro programma politico.

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