Giorgio Del Vecchio, filosofo dimenticato. La sua biografia è esemplare per superare gli opposti estremismi ideologici

21 Apr 2024 16:02 - di Riccardo Arbusti

Quando si parla dell’egemonia culturale del secondo dopoguerra italiano non si ricorda mai che, nel maggio 1962, si svolse a Roma l’Incontro romano della cultura, una manifestazione internazionale del Centro di vita italiana, di cui erano presidente Ernesto De Marzio e segretario Giano Accame, e alla quale intervennero grandi intellettuali da tutto il mondo che non si riconoscevano nella logica della guerra fredda. In quegli anni infatti il mondo della cultura era portato a intrupparsi o dalla parte dell’Occidente capitalista a egemonia anglofona o da quella dell’universo marxista a egemonia sovietica.

Dalla parte, invece, di una cultura libera e d’ispirazione europea si posero gli intellettuali convocati a Roma, tra i quali l’accademico di Francia Michel Déon, il greco Odysseus Elytis, poi premio Nobel per la letteratura, il filosofo personalista francese Gabriel Marcel, il drammaturgo italiano Diego Fabbri e lo scrittore statunitense John Dos Passos. Tra i promotori c’erano anche il tedesco Ernst Jünger, il francese Paul Sèrant e, non ultimo, il filosofo italiano Giorgio Del Vecchio. Ed è proprio di quest’ultimo che intendiamo parlare per individuare un primo filo spezzato d’una ispirazione e d’una vocazione politico-culturale finita oscurata nella narrazione degli ultimi decenni.

Nato a Bologna nel 1878, Del Vecchio era, già nel 1920, ordinario di filosofia del diritto all’ateneo romano. Nel ’21, anche in qualità di mazziniano e di ex volontario nella Grande Guerra, aderisce al movimento fascista. “Allora una libera associazione – così ne scriverà – che, senza costituire un partito, e accogliendo anzi uomini di diversi partiti ma generalmente democratici (i non democratici avevano allora a disposizione il partito nazionalista) dichiarava di difendere la libertà e la patria, gli stessi ideali per i quali era stata combattuta e vinta la guerra”.

Aggiungerà in un suo scritto: “Non bisogna dimenticare che il fascismo si era dichiarato allora repubblicano e contrario all’imperialismo”. Del Vecchio, inoltre, anche se si convertirà convintamente al cattolicesimo era d’origine ebraica, come molti dei fascisti della prima ora, “i quali – rievocherà lui stesso – rispondendo all’appello loro rivolto nel nome della libertà e della patria avevano inteso con ciò suggellare la loro italianità”.

Ebbene, il nostro diverrà rettore della Università La Sapienza di Roma dal 1925 al ’27, pur contrastando dall’interno alcuni aspetti della riforma Gentile e certi accenti totalitari e giacobini della filosofia attualista. Opzione filosofica che Del Vecchio connetterà a quella “degenerazione” del fascismo che a suo dire si svilupperà attraverso varie fasi: la trasformazione in partito, la fusione con l’ideologia dei nazionalisti (“vera contaminatio politica”) e “la tendenza verso l’autocrazia e il cesarismo, favoriti dall’immensa moltitudine di coloro che si inserirono nel movimento quando l’ora del pericolo era passata per avvantaggiarsi dell’appartenenza a un partito al potere”.

Nel suo pensiero l’attenzione alla “questione nazionale” era ben distinta dall’ideologia nazionalista, di evidente matrice giacobina. E infine, ultima degenerazione, le leggi razziali che “furono – scriverà – il passo verso l’abisso”. Il paradosso è che Del Vecchio verrà due volte perseguitato ed epurato, prima dal regime fascista e poi dal governo antifascista. Sarà infatti allontanato dalla sua cattedra prima nel ’38 per le leggi razziali (a causa delle sue origini etnico-religiose) e, pur dopo una veloce riammissione, anche nel ’45 perché indubbiamente fascista “antemarcia”. Eppure, stando a quanto lui racconta – lo scriverà in un pamphlet dedicato alla sua esperienza – lui aveva “sempre insegnato il culto della libertà, i principi immutabili dei diritti della persona umana e l’obbligo inderogabile dello Stato di rispettarli e difenderli”.

Morirà anziano, nel 1970, testimoniando sino alla fine un’attività scientifica che lo pone nel Novecento tra i massimi pensatori italiani del diritto. Ma perché ce ne siamo dimenticati? Quando invece la sua biografia e il suo itinerario dimostrano non solo la reale complessità della vicenda politico-culturale italiana ma potrebbero ancora fornire una traccia per una interpretazione profonda della nostra vicenda nazionale.

 

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