Verso l’8 marzo. Le “straordinarie” secondo noi. Cristina Campo, la poetessa alla pazza ricerca di assoluto

6 Mar 2024 9:04 - di Annalisa Terranova
Cristina Campo

Due mondi e io vengo dall’altro“: con questo verso della sua poesia Diario bizantino Cristina Campo (al secolo Vittoria Guerrini) riassumeva il suo percorso spirituale e estetico. In vita non fu particolarmente apprezzata, anche in virtù della sua vita appartata e solitaria, ma Cristina Campo è oggi riscoperta come figura tra le più significative del Novecento.  Fu assidua la sua cura dello stile, la ricerca della perfezione, l’attenzione per il simbolo, per tutto un immaginario, dunque, che la trascinava lontano dal quotidiano, dalla corruzione continua che il tempo opera sulle cose e sugli uomini. Non a caso la sua personalità è stata accostata a quella di un’altra filosofa inquieta e visionaria, Simone Weil.

Cristina Campo è stata una poetessa raffinata ma è impossibile racchiudere la sua figura in una definizione. Si interessò e scrisse di saggistica, fiabe, epistolari, inoltre tradusse testi letterari importanti. E’ stato giustamente osservato che nelle sue traduzioni infondeva lo spirito della sua poetica. “La traduzione è per lei un rito, un gesto sacro, poiché significa far rivivere in una nuova lingua le tensioni e “l’amore” che il poeta ha manifestato, una mediazione dunque che necessita della totale aderenza allo spirito dell’autore”.

Come ha scritto Davide Brullo sul Giornale, “nel canone della Campo figurano Giovanni della Croce e John Donne – tradotto per Einaudi nel 1971 –, Hugo von Hofmannsthal e Thomas S. Eliot, Simone Weil, Lawrence d’Arabia, Emily Dickinson. Coltivò un legame epistolare con William Carlos Williams (che tradusse, con genio, per Scheiwiller e per Einaudi, sotto l’astro di Vittorio Sereni); tra i suoi ultimi lavori, spiccano le versioni di alcuni testi di Efrem Siro, padre dell’innografia cristiana – genere da tempo sotto disprezzo – e di un paio di poemi di Peter Lamborn Wilson, alias Hakim Bey, amico di William Burroughs, guru della controcultura, incauto incrocio tra Henry Corbin e Timothy Leary”.

Era nata a Bologna il 28 aprile del 1923 ma la sua formazione si svolse a Firenze. Gli anni del suo soggiorno fiorentino la fecero entrare in una rete di relazioni intellettuali che ne affinarono l’ingegno (Mario Luzi, Maria Zambrano, Leone Traverso, Gabriella Bemporad). Il periodo romano, dal 1956 in poi, coincise invece con l’aggravarsi della sua malattia cardiaca che la rese sempre più fragile.

Condusse una vita appartata al quartiere Aventino, accanto al compagno Elémire Zolla, sotto la protezione della grande chiesa di Sant’Anselmo che la scrittrice frequentava volentieri: «Il suono delle campane che ordina il giorno, accompagna dolcemente la notte – questa esistenza infine, quasi di oblati in ritiro – è puro olio soave sull’anima e il corpo». Quelli romani, ha scritto Pietro Citati, «furono anche gli anni della crisi mistica e dei testi più belli che Cristina Campo abbia mai scritto».

Stabilì intensi sodalizi spirituali anche con personaggi del calibro di Pound, Malaparte e Ernst Bernhard, che le fece conoscere il pensiero di Jung. Contestò la riforma della liturgia decisa dal Concilio Vaticano II e si avvicinò al rito bizantino che le sembrava meglio corrispondere alla sua sete di assoluto, che cercò di soddisfare attraverso l’interesse per la metafisica orientale.  La maggior parte delle opere  della Campo (edite dalla casa editrice Adelphi) fu pubblicata postuma – morì nel 1977 – grazie all’amica Margherita Pieracci Harwell.

La quale sottolineava che una biografia della Campo “doveva essere prima di tutto una storia delle sue letture”. Le fiabe innanzitutto. Campo accosta l’eroe della fiaba al Santo. All’eroe della fiaba si pone dinanzi la “prova” come il Santo deve superare la “notte oscura dell’anima”. Scrive infatti che “l’impossibile è aperto all’eroe di fiaba, ma all’impossibile come arrivare se non attraverso l’impossibile?”. Che la prova sia attraversare un bosco pauroso, salire un monte, uccidere un drago, il fine ultimo è sempre la trasformazione dell’afflizione iniziale in felicità che per Cristina Campo è immersione nella bellezza, pura spiritualità.

In questa fase della “prova”, nella fiaba, entrano in campo quelli che Propp chiama gli aiutanti. La fata madrina che corre in soccorso di Cenerentola nel momento della disperazione massima. Ma la “struttura” della fiaba che interessava a Propp interessa  solo nella misura in cui questo aiuto soprannaturale che soccorre l’eroe è utile alla sua elevazione. Come il Santo, come l’uomo di fede, il protagonista della fiaba deve avere l’anima spicca come le pesche, cioè deve avere il cuore ben separato dalla carne. “Non si entra nell’impossibile con un cuore legato”, ammonisce Campo. E’ un’immagine potente e al tempo stesso semplice. Che cos’è questo impossibile di cui parla? E’ la dimensione propria della fiaba dove si infrange la legge di necessità, dove si passa “a un nuovo ordine di rapporti”.

Con Simone Weil condivide l’amore per la liturgia che la avvicinò all’abbazia benedettina di sant’Anselmo sull’Aventino. Quando anche quella chiesa passò alla liturgia postconciliare frequenterà il Russicum, dove resiste il rito bizantino. Traduttrice dei Detti dei padri del deserto, meditò in modo profondo sulla liturgia: “Liturgia – come poesia – è splendore gratuito, spreco delicato, più necessario dell’utile. Essa è regolata da armoniose forme e ritmi che, ispirati alla creazione, la superano nell’estasi”.

Nel 1973 scrive un’introduzione al testo Racconti di un pellegrino russo, edito da Rusconi. Un testo dove per Campo “la fiaba per una volta si mostra senza maschera, mostra cioè quello che tutte le grandi fiabe sono copertamente: una ricerca del Regno dei Cieli, l’inseguimento di una visione ignota e inesplicabile, spesso soltanto un’arcana parola, per la quale si diserta di colpo la terra amata e ogni bene, ci si fa appunto pellegrini e mendichi, beati folli dal cuore in fiamme dei quali il mondo intero si fa beffe e che il mondo “che è dietro quello vero” soccorre e guida con meravigliosi segni e portenti”.

Torna il concetto della pazza ricerca, che è di tanti Santi che fuggono dal mondo secolare, che oltrepassano il limite, che si sottraggono come l’eroe di fiaba alla legge di necessità, che oscillano tra la paura della loro scelta radicale di vita e l’anelito alla bellezza che è bellezza spirituale. Le tre parole che schiudono una visione di salvezza al pellegrino sono: “Pregate senza interruzione”. L’anelito verso l’assoluto, che fu la cifra della sua esistenza, si riscontra nei suoi versi, nei suoi scritti, nelle lettere.   “Il rito è per eccellenza questa esperienza di morte – rigenerazione attraverso la bellezza… I riti sono… io credo, i veri modelli, gli archetipi della poesia, che è figlia della liturgia…”, così scrive Cristina Campo il 16 aprile del 1972 sul “Tempo”. 

Ma quale eredità lascia alle donne Cristina Campo? La scrittrice  lavorò all’inizio degli anni ’50, a un progetto ambizioso, Il libro delle 80 poetesse, nel quale intendeva raccogliere le “più pure pagine vergate da mano femminile”. E vi figurano, in questo progetto editoriale incompiuto, grandi mistiche come Ildegarda di Bingen e Matilde di Magdeburgo, Teresa d’Avila e Angela da Foligno. Ma ci sono anche le poetesse del Giappone medievale e le viziose dame aristocratiche del Settecento francese. Testimonianza degli interessi vasti di un’anima inquieta, che aveva a cuore l’invisibile più del visibile e al quale intendeva accostarsi attraverso un’estenuante ricerca della bellezza, anche e soprattutto attraverso la parola che “penetra nel roveto crepitante dei millenni”.

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