L’inverno demografico? “Figlio” dell’epoca dell’ansia. E no, l’immigrazione non ci salverà…
Dallo steinbeckiano inverno del nostro scontento all’inverno demografico che avvolge e asfissia Italia ed Europa il passo è stato breve. E doloroso. Pur senza neve e ghiaccio, il gelo del tramonto di una civiltà appare evidente. Ineludibile, si spera, no. Ma affinché da Steinbeck non si passi a Spengler e poi dal tramonto alla notte fonda, senza stelle e tormentata dal senso della fine, sarà necessario interrogarsi e darsi e dare qualche soluzione.
Compito della politica, interna ed euro-unitaria, ma anche del mondo dell’informazione, degli scienziati, degli esperti e degli intellettuali, se ancora ne esistono. Ormai sulla bocca di tutti, anche di Elon Musk che della natalità ha fatto uno dei suoi cavalli polemici di battaglia, il brusco calo demografico, la stagnazione dei nuovi nati, l’obsolescenza e l’incanutimento delle nostre società punteggiano la linea d’orizzonte. Le conseguenze sono gravi e evidenti; sociali, culturali, economiche, antropologiche. Sistemi di previdenza che rischiano il collasso, infiacchimento istituzionale, depauperamento e spopolamento di borghi, villaggi, paesi, eradicazione di tradizioni, inabissamento delle dinamiche stesse dello stare al mondo.
Nel 2022, analizzando i dati ISTAT, OpenPolis rimandava un quadro agghiacciante: un numero di neonati ridotto a un terzo rispetto il 2008, percentuale ben oltre il 31% di nascite in meno, un tracollo in apparenza inarrestabile, con addirittura quattro comuni su cinque avvolti dal sudario nero di un ulteriore calo demografico nei prossimi dieci anni. Prospettiva da far tremare le vene e i polsi, perché le conseguenze di ordine sociale ed economico, soprattutto per i ceti più poveri, meno attrezzati e più dipendenti dai gangli dello Stato sociale, appaiono evidenti. Meno giovani, meno forza lavoro, meno contribuzione, minore tassazione, uno Stato infiacchito e col fiato corto, soprattutto nelle sue appendici assistenziali e tecnicamente sociali.
Secondo le previsioni ISTAT, elaborate dal 2021 con previsione 2070, dai 59,2 milioni di abitanti registrati nel 2021 si arriverebbe ai 57,9 del 2030, per poi drammaticamente inabissarsi a 54,2 nel 2050 e a 47,7 milioni nel 2070. In una forbice che tra cinquant’anni andrebbe dallo scenario prevedibilmente migliore – 56,3 milioni – a quello peggiore (39,9 milioni). Entrambi non positivi. Uno preoccupante e l’altro decisamente tragico. E in generale il trend finisce per colpire tutta l’Europa, o quasi. Secondo Eurostat, organo di elaborazione statistica dell’Unione Europea, solo una famiglia su quattro decide di avere bambini, tanto da aver stimato che entro il 2100 la popolazione complessiva dell’Unione sarà scesa di ben 27 milioni di unità.
La panacea individuata, da esperti di sinistra e forze politiche progressiste, è come al solito quella del ricorso a massicci flussi migratori. Il famoso e famigerato slogan “risorse che ci pagheranno le pensioni” d’altronde origina in questo alveo e testimonia non solo una idea di risposta alla crisi dei sistemi pensionistici, messi sotto stress, dal calo delle nascite, ma anche proprio all’inverno demografico. A parte la ovvia considerazione che le migrazioni possono costituire, in chiave pensionistica o di Stato sociale, parziale risposta ai cali demografici a patto che i nuovi arrivati versino i contributi e paghino le tasse e quindi lavorino in maniera burocraticamente regolare, c’è da interrogarsi sulle scaturigini culturali di questo fenomeno.
Diciamo subito brutalmente che l’immigrazione non può essere la sola risposta. Perché, se così fosse si finirebbe per legittimare, sia pure solo fattualmente, l’idea di una civiltà morente, soppiantata, e non meramente integrata, da forze fresche. Ciò su cui invece ci si dovrebbe interrogare è il clima culturale, economico e sociale che porta all’inverno demografico. E interrogarcisi sopra con pragmatico spirito del fare, al fine di capire se e come sia possibile invertire la rotta demografica.
Non c’è alcun dubbio che i figli spaventino in termini sociali e economici. Da ricchezza, anche in senso di completamento della famiglia, ormai vengono visti come insostenibilmente costose bocche da sfamare. Livelli retributivi sempre più bassi, costo della vita generalmente più caro, tendenziale precarizzazione, ma senza quella vera flessibilità di matrice americana che riesce a fornire occasioni e opportunità in ottica concorrenziale nel mercato del lavoro, e la precarizzazione finisce per portare a una perenne insicurezza. La iper-tassazione di molte attività produttive e imprenditoriali porta poi a una granitica impossibilità, ad esempio, di attivare efficaci modelli di welfare aziendale. Del pari, l’eccesso di normazione, di regolazione, di incombenti burocratici, di legacci stretti ai polsi della imprenditoria, molto spesso ingenerano l’effetto esattamente opposto rispetto quello pensato e auspicato, sterilizzando l’ipotesi di stipendi più elevati per le dipendenti e i dipendenti. Questi fattori tra loro cospiranti conducono, anche, alla scelta di non avere figli.
Ci sono poi non banali problemi connessi alla sempre più scarsa assistenza che proprio la sfera pubblica finisce per garantire, dagli asili nido alle strutture dedicate all’infanzia, dal costo esorbitante di libri di testo, generalmente in alcuni casi a carico dell’erario, a irrisolti intrecci normativi per conciliare vita e lavoro delle donne madri di famiglia, sovente rimasti più slogan che non effettiva politica pubblica messa coerentemente a terra. In certa misura, le politiche per la famiglia e i provvedimenti incentivanti la natalità rimangono episodici, frammentari, a volte incoerenti. Manca, volendo suonare enfatici, magari pure pretenziosi, una vera, organica, seria visione di insieme capace di tradursi in interventi continuativi e di sistema.
Ma del pari, manca anche una cultura della natalità. Il che, intendiamoci, non significa volgersi come gli indovini puniti da Dante nel suo Inferno con la testa all’indietro, paventando nostalgie di donne fattrici di bambini: l’autodeterminazione, in un senso o nell’altro, deve continuare a essere sacra e intangibile e lo Stato deve offrire, al massimo, sostegno, aiuto e politiche coerenti e razionali, non modelli, santificando una sorta di virtù di Stato. E se però dallo Stato ci trasliamo in seno alla società e alla cultura, volendo qui sì parlare di modelli, possiamo anche spendere due parole su un certo oscuro clima che ha talmente terrorizzato una parte della gioventù da averla resa materia inerte, priva di qualunque considerazione per il futuro e, figuriamoci, per l’idea stessa di mettere al mondo dei figli. Non è paranoia complottista questa, ma mera certificazione notarile di un trend sub-culturale che ormai impesta l’Occidente: lo University College di Londra in un suo studio condotto su un campione statistico di 11mila intervistati ha evidenziato come l’ansia per il cambiamento climatico e gli sconvolgimenti ambientali abbia diretta incidenza sulla genitorialità.
In una società pervasa da fantasmi malthusiani, da una perenne escatologia climatica, da una debolezza sensazionalistica sbandierata come statuto ontologico dell’essere umano americano e europeo, ogni nascita è considerata con terrore, con sgomento e in altri casi con fastidio. Nel 2017, uno studio apparso su IOP Science sottolineava come un figlio in meno per famiglia avrebbe significato minori emissioni di carbonio. Arrivati a questo punto, il sotteso, il non detto, è che la nascita sia inquinamento. Non detto, intendiamoci, fino ad un certo punto, perché ormai le avanguardie fucsia della rivoluzione woke e della giustizia sociale e climatica questa roba la dicono tranquillamente e senza tanti giri di parole.
Naturalmente in una beata sospensione di qualunque razionalità, perché mentre patrocinano la denatalità occidentale si guardano bene dal fare lo stesso con la vis espansiva genitoriale del terzo mondo, sulla quale si fischietta beati passando oltre. Forse inquinano solo i neonati occidentali? E d’altronde che la genitorialità e la natalità siano considerate scorie di un sistema passato, oscurantista, patriarcale, asimmetrico, gerarchico, autoritario, ci è testimoniato sempre dagli ammennicoli del decostruzionismo trans-femminista e da tutto ciò che deriva dal post-strutturalismo, con il suo soggettivismo oltranzista: la decostruzione della realtà sociale, di ogni identità, è passata anche attraverso la guerra totale culturale dichiarata contro la famiglia.
Si è passati da un estremo, l’idea che una donna possa dirsi realizzata e vera donna solo se madre, all’altro estremo, ovvero la malsana e ideologizzata vulgata della donna che per sentirsi e essere davvero libera, emancipata e vera donna deve dimenticarsi nella maniera più tassativa di fare figli. La criminalizzazione culturale della maternità e della natalità senza dubbio ha contribuito a dare copertura ideologica all’inverno demografico, eradicando dalla mente di molte donne l’idea stessa di mettere al mondo un figlio. Come se questo evento non fosse altro che una imposizione maschile, di cui la donna è mero oggetto servente e strumentale.
Come si capisce agevolmente, la crisi demografica è tema incandescente e complessissimo, capace di assommare caratterizzazioni strettamente economiche e sociali ad altre culturali e politiche. Ma in certa misura il perimetro culturale entro cui si sarà chiamati ad operare per invertire la rotta è essenziale, perché se non si eradicano certi catastrofismi anti-occidentali, se non si abbatte la cappa di ansia e di angoscia e di conflitto contro la famiglia frettolosamente eretti da un certo pensiero debolissimo, sarà impossibile mettere a terra qualunque seria politica di incentivazione o di sostegno alle nascite.