Il ritratto. C’era una volta un “delfino” di nome Speranza. In realtà era solo un galleggiante

24 Mar 2024 8:45 - di Pio Belmonte

Il guaio dei “galleggianti” politici è che non sai mai che sono tali, finché non finisce l’acqua. Fino a un attimo prima, a tutti pare che siano tremendamente bravi, competenti, veloci. Poi, qualcuno toglie il tappo alla vasca et voilà, il guizzante delfino è spiaggiato, riverso sul fianco, affannato in confusionarie manovre senza senso né direzione. Il delfino di Basilicata è Roberto Speranza. Delfino ed erede di quell’Emilio Colombo che ha costruito la Dc percorrendo a dorso di mulo la Basilicata degli anni Quaranta, e che poi ha costruito il locale centro-sinistra, cinquant’anni dopo, percorrendola un’altra volta, questa volta sulle spalle di un corteo festoso di statali, galoppini e appaltatori pubblici. Tutta l’eredità di Colombo, la perfetta sintesi tra DC e PCI, familismo amorale e obbedienza di partito, il territorio sotto controllo di sagrestani e compagni commissari, nel 2013 era di Roberto Speranza. Al quale però, dopo un primo impressionante slancio verso Roma, il destino ha tolto il famoso tappo: 2014, appena un anno dopo la morte di Emilio Colombo, il centrosinistra perde il capoluogo di Regione; in mancanza di sintesi politica dal parte della maggioranza uscente a guida Pd, Potenza è governata, per la prima volta nella storia, da un sindaco di destra; vittoria imprevista, incredibile, storica.

I pesci nella vasca, al suono di quel primo schiocco, non si preoccupano più di tanto. Men che meno se ne cura il Re Delfino: l’acqua, infatti, sembra più o meno quella di prima. E invece l’acqua sta già rapidamente diminuendo: il nuovo sindaco dovrà dichiarare dissesto per le gestioni passate, il che infliggerà un colpo mortale all’industria dei contributi comunali, base privilegiata del consenso elettorale PD. D’altro canto, il giovane re del centrosinistra lucano già levita verso i più alti piani dell’empireo liberal-europeista, non sembra neanche più un delfino, ma un angelo: alla rovina progressiva e rapida della struttura di potere locale, sempre più a corto di influenza (quindi di coesione), lui risponde di non avere tempo per beghe di paese. Arrivano le regionali del 2019 e il centrosinistra lucano, logorato da inchieste e scandali, con una guida romana così assente e disinteressata, si sveglia tardi, si veste al buio e si auto-impone un candidato di compromesso, su cui nessuno (neanche il centrosinistra medesimo) scommette. È la débacle: la Regione Basilicata, il cosiddetto “partito regione”, bengodi superstite della bolla creata da Colombo in sei decenni, showroom e laboratorio della sinistra italiana dove i giovani emigrano, ma quelli del partito comprano casa, non esiste più, il centrodestra domina anche l’istituzione più alta.

L’acqua è bassa ormai, ma i pesci continuano a pinneggiare, quindi nessuno ancora si allarma; non molto, almeno. E poi, il re delfino è ormai il ministro più influente e strategico di sempre. Pensa la fortuna, trovarsi alla sanità proprio allo scoppio di una pandemia mondiale che ha trasfigurato governi, leggi, società, certezze: letteralmente uno degli uomini più importanti in circolazione. La sua figura si staglia nel cielo e dona ai suoi dirigenti locali, che nuotano nella vasca ormai ridotta a una pozza, il conforto alla fatica del gregario che sa di correre per il ciclista vincente.

È il 2024, al governo c’è Giorgia Meloni, il suo consenso è granitico e in Basilicata si torna alle urne. Il centro-sinistra si sveglia tardissimo, ma – questa volta – con alla guida un autista romano determinato a guidare i processi locali, che con fermezza (e notevole sprezzo del ridicolo) impone a candidato presidente lo stereotipo più banale del centrosinistra moderno: un imprenditore che vive di appalti sanitari, assistenziali, sociali ed educativi. Appalti pubblici, ça va sans dire, e amico di ferro dell'(oramai, nel frattempo ex) ministro lucano. La riconquista della Basilicata sembra davvero ricominciata. Anzi no, contrordine, glielo silurano i 5 stelle, poi il PD se ne lava le mani, quindi Speranza – senza più opzioni – abbandona il campo, non senza aver lasciato dietro di sé una sfilza di candidati impossibili e bruciati prima di cominciare. Ha provato a comportarsi da leader di quel mondo che aveva ereditato, forse per la prima volta sul serio, e ha fallito. E forse, ha fallito perché lui, la stoffa del leader, sa di non averla mai nemmeno avuta: deputato è stato eletto a Napoli, dove non conosce nessuno, e di candidarsi lui, presidente di una cosa così poco importante come la sua, non ci pensa nemmeno.

Del resto, in Basilicata il vero leader di centro-sinistra, il vero erede delle capacità gestionali di potere che furono di Colombo, è Marcello Pittella. Al quale manca la “fase romana”, certo, ma al quale non manca tutto il resto. Se esistesse un quadro plastico della desolazione, sarebbe il Pd lucano oggi: a corto di forze, risorse e progetti, in astinenza di potere da una vita (eppure ancora non disintossicato), preda dei sussulti confusi, senza senso né direzione – senza speranza – di un leader che, in realtà, leader non è mai stato, ma solo un capace galleggiante. E che oggi, mentre i suoi, disorientati, lo guardano affannarsi nel fango di questa piccola palude bonificata del Sud Italia, vorrebbe solo fuggire a galleggiare altrove, come un Di Maio qualunque. Verso altre vasche, ancora piene. E poi, diciamocelo, per galleggiare non bisogna nemmeno essere capaci, basta solo avere la densità giusta, la politica non c’entra.

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