Caso Signorelli. Da Andrea Colombo a Giampiero Mughini: quelli che…”Repubblica” vergognati
Lezione a Repubblica: di stile, di memoria storica e di rispetto dello Stato di diritto. Sul caso di Paolo Signorelli (sulla cui odissea giudiziaria intervenne persino Amnesty international) e di suo nipote Paolo Signorelli “junior” – stimato collega, oggi portavoce del ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, tirato in ballo in maniera grottesca e vergognosa dal quotidiano del gruppo Gedi solo per attaccare quest’ultimo – sono giunti i commenti di autorevoli firme del giornalismo: tutt’altro che ascrivibili a destra.
Fra i primi ad indignarsi contro il titolo di Repubblica («Lollobrigida assume come portavoce il nipote dell’ideologo del terrorismo nero») e l’ennesimo tentativo di azionare la macchina del fango è stato Andrea Colombo, storico giornalista de il Manifesto. Lo ha fatto con un post pubblico sulla propria pagina Facebook. «Repubblica allude al nipote di Paolo Signorelli», ha annotato prima di entrare lancia in resta contro il giornale-partito: «In questo strillo indignato ci sono tre svarioni di cui ogni persona normale dovrebbe vergognarsi ma purtroppo il 90% degli “antifa” normale non è». Eccoli: «Primo: da quando le colpe dei nonni o degli zii ricadono sui nipoti? Secondo: Paolo Signorelli ha passato nove anni in carcere, un record, per poi essere assolto. Alla memoria e agli eredi lo Stato democratico dovrebbe solo chiedere scusa. Terzo: essendo stato sempre assolto è discutibile definire Signorelli “ideologo del terrorismo nero”». Impietoso il verdetto di Colombo: «Mi fanno schifo e non dico tanto per dire».
Dalle colonne di Dagospia è Giampiero Mughini ad intervenire sulla vicenda, rispondendo proprio al celebre sito di retroscena: «Caro Dago, vedo che fai il nome e dedichi un articolo a Paolo Signorelli (nato nel 1934, morto nel 2010), un nome che è stato fragoroso nella storia recente della destra italiana. Il nome di uno che a un certo punto apparve essere un Mostro quale non ce n’era stato l’eguale nella nostra storia repubblicana, uno che s’era meritato la bellezza di tre ergastoli da quanti ne aveva messi a morte». La storia poi, ricorda Mughini, è andata diversamente. «Solo che una dopo l’altra quelle accuse caddero, che dopo dieci anni di cella Paolo scrivesse un imperdibile “Professione imputato” che in tanti ci scaraventammo a leggere e che una trentina d’anni fa nell’aula di un alberghetto romano di Trastevere fummo in molti a riunirci e in un certo modo a risarcire Signorelli. Mi pare fosse stato Francesco Rutelli a organizzare il tutto, c’eravamo io, qualche radicale, Giuliano Compagno e altri». «Tutti unanimi – ricorda ancora lo scrittore – nel salutare un uomo che era stato ingiustamente giudicato e condannato, un uomo che s’era accanito sì nel professare le sue idee, uno che con me una volta ha ammesso di avere scherzato col fuoco (come tantissimi a sinistra, uno per tutti Antonio Negri), ma che non era affatto un Mostro calzato e vestito. Sono poi rimasto un amico della famiglia Signorelli e innanzitutto di sua figlia, la mia carissima Silvia. Continuo a pensare che la democrazia italiana sia in debito con lui, non in credito».
Anche Salvatore Merlo, vicedirettore del Foglio, non ha fatto mancare un appunto critico sulla ricostruzione di Repubblica e il grottesco tentativo di mettere in mezzo il nipote del “professore” (come era conosciuto Signorelli). «Paolo Signorelli si fece dieci anni di prigione da innocente – scrive su X –. Trent’anni dopo esce un pezzo su Repubblica che lo usa per sporcare suo nipote, nato nel 1986, gravemente accusato tra l’altro di essere tifoso della Lazio». Il giudizio è impietoso: «Mah».