La nostra missione in Israele tra i sopravvissuti del Kibbutz Be’eri e i familiari degli ostaggi
Tre giorni intensi di emozioni, incontri e riflessioni in terra israeliana per toccare con mano le devastazioni della guerra dopo i feroci attacchi di Hamas del 7 ottobre. Con sedici parlamentari di diversi Paesi europei, tra gli italiani Alessandro Alfieri del Pd, Marco Deostro della Lega, Maria Stella Gelmini di Azione e e Lia Quartapelle del Pd, ho partecipato alla missione in Israele organizzata dall’American Jewish Commitee e dal Transatlantic Friends of Israel, di cui sono presidente.
La missione di American Jewish Commitee in Israele
Prima tappa lo sbarco a Tel Aviv, in un aeroporto isolato e semideserto, e l’arrivo in hotel dove si è svolta la prima riunione insieme tra i partecipanti alla tre giorni per capire la dinamica della guerra a Gaza. La prima cosa di cui ci informano è dove posizionarci qualora avessimo sentito le sirene degli allarmi. Nell’eventualità avremmo dovuto attendere 10 minuti, il tempo che serve alla controaerea israeliana per abbattere i missili che sono sparati dalla striscia di Gaza. Sono i minuti che occorrono affinché il missile colpisca l’obiettivo, pensiamo noi, ma tanto, aggiungo tra me e me non succederà. E cosi così è stato, almeno nei nostri giorni di permanenza.
Una terra sconvolta dalla paura e dal terrore
Inizia la nostra missione, in una terra sconvolta dalla paura e dal terrore. Arriviamo a Ashkelon, città vicinissima a Gaza, e visitiamo l’ospedale, dove incontriamo il responsabile del reparto emergenza. Quel maledetto 7 ottobre sono morti moltissimi abitanti del suo villaggio, la sua casa è l’ultima prima del confine con la Striscia di Gaza. Nell’ospedale sono arrivate 200 persone ferite da Hamas. Tutte insieme, nello stesso ospedale, dove fino a poco prima venivano formati medici che per il 70% avrebbero poi lavorato a Gaza e venivano curati i palestinesi, circa 5000 all’anno. Il medico tiene a precisare che prima del 7 ottobre era costantemente in contatto con i colleghi di Gaza, c’era collaborazione. Oggi non c’è più nulla. Hamas ha voluto, con la strage del 7 ottobre, colpire scientificamente i punti di collaborazione tra israeliani e palestinesi.
La visita al Kibbutz Be’eri tra i sopravvissuti
I pochi sopravvissuti del Kibbutz Be’eri, il villaggio che più di tutti ha subito il feroce attacco di Hamas, non riescono neanche più a immaginare un futuro. I volontari del villaggio, che facevano progetti di collaborazione con i palestinesi, sono stati ammazzati, tutti. Quel sabato mattina uomini e donne hanno visto i propri cari, i propri amici, uccisi brutalmente. Una moltitudine di terroristi hanno ammazzato chiunque incontrassero per strada, poi una seconda ondata di persone comuni, che ha continuato il massacro senza nessuna pietà. Negli occhi di chi abbiamo incontrato c’è l’orrore, un orrore che probabilmente non potrà mai essere lenito, una speranza polverizzata che chissà se mai tornerà.
La città fantasma di Sderot
Dopo qualche ora ci troviamo a poi Sderot, città di 35mila abitanti, oggi ne sono rimasti poche migliaia. È una città fantasma dove tutti gli edifici devono avere un rifugio antimissile. Fino al 7 ottobre gli abitanti erano abituati a scappare nei rifugi in 15 secondi, ogni volta che sentivano le sirene di allarme. Alle prime luci dell’alba di inizio ottobre, questa volta non hanno avuto scampo.
L’incontro con le famiglie degli ostaggi
Il secondo giorno della missione si svolge tra una serie di incontri per capire la legalità sul piano internazionale della risposta di Israele nella striscia di Gaza. In verità è stato soprattutto il giorno del toccante incontro con le famiglie degli ostaggi di Hamas. E con due donne rapite dai terroristi e liberate nello scambio dei prigionieri qualche settimana fa. Abbiamo capito l’incredulità di quello che è accaduto e il perché questa vicenda degli ostaggi colpisce ancora fortemente la comunità israeliana, che non riesce ad abbandonare il ricordo del 7 ottobre, fissato nelle nelle anime di chi ha vissuto quella giornata. Ci raccontano che non c’è nessuna legittimità nell’aver catturato e rapito dei civili, assolutamente innocenti, dei quali da mesi non si hanno notizie. In qualunque guerra ci sono prigionieri, ma indossano una divisa, sono persone che comunque possono combattere, non sono persone come quelle finite ostaggio nelle mani dei terroristi.
L’ambasciatore: pochi credono nella pace
Incontriamo l’ambasciatore italiano in Israele, che ci fornisce il quadro della situazione attuale. Oggi in Israele sono davvero pochi quelli che credono nell’opzione di una pace e nella possibilità di dare vita a una politica, che rimandi a due Stati e due popoli che si confrontano fraternamente. A non crederci soprattutto sono proprio quanti hanno provato a coltivare questa opzione con determinazione, nel corso degli anni. La delusione, la rabbia, le morti e le distruzioni sono state troppe. Però – sottolinea il diplomatico – la comunità internazionale non può perdere questa occasione, quella della pace, l’unica via praticabile. Occorre un interlocutore palestinese credibile, con una politica di Israele non aggressiva.
Il ruolo strategico degli Stati Arabi Moderati
Su questo devono intervenire però, gli Stati Arabi Moderati, in primis l’Arabia Saudita che può e deve far comprendere ai palestinesi, una volta per tutte, che Israele è uno Stato presente, che dovrà esistere e al contempo la Palestina, dovrà essere liberato da Hamas e dai suoi sostenitori. Dopo aver affrontato la sfida della guerra Israele dovrà adesso affrontare quella della pace.
* senatore di Fratelli d’Italia, presidente del Transatlantic Friends of Israel