Cortellesi, nel suo “Domani” non c’è la prima premier donna. Le è mancato un po’ di coraggio

17 Gen 2024 11:39 - di Carmelo Briguglio
Cortellesi Meloni

Sono andato a vedere (con voluto ritardo) il film di Paola Cortellesi, “C’è ancora domani”, della quale – anticipo – mi é molto piaciuta l’interpretazione della giovane attrice Romana Maggiora Vergano, nella parte di Marcella, la figlia di Delia; certo, Paola come attrice é molto brava, ma si sapeva.

Le astuzie di Paola: nostalgia e bianco e nero

Non ho pregiudizi: non mi faccio traviare dal fuor d’opera della Cortellesi sulla banalità woke in cui é caduta per Biancaneve pretesa servetta dei Sette Nani: fatemela passare come una gag del suo precedente mestiere di comica. Il film é un buon film. Anche per un ingrediente astuto che colpisce al cuore le generazioni d’antan: la nostalgia; ma che non risparmia nessuno, nemmeno le generazioni che “ricordano col cuore” un tempo che non hanno vissuto. Nostalgia amplificata dal bianco e nero – secondo ingrediente d’effetto – che funziona molto sullo spettatore, come testimonia il bottino al botteghino. Lo storytelling neo-neorealista si lega con la fiction della Rai tratta dalla Storia della Morante; nonostante luoghi comuni e forzature, é un’opera prima di tutto rispetto: se volerà ad altezze da vero capolavoro, lo sapremo nel prossimo futuro, da festival e premi internazionali.

Immaginario minoritario, non specchio dell’Italia del dopoguerra

Mi soffermo sul sottotesto di cultura politica. Che ha un obiettivo confesso: celebrare la liberazione delle donne da una condizione di sottomissione nella nascente Italia repubblicana; descritta come patriarcale, concetto fuoruscito dal campo sociale e usato come arma impropria contro la cultura politica della destra. Ma tant’è. Sciogliamo il “nodo” con gli interrogativi: quella firmata dalla Cortellesi é una vicenda-specchio del vissuto collettivo di quegli anni, di un modello famigliare preponderante ? O Delia-Paola racconta un immaginario minoritario, uno spaccato sociale esistente, ma non esemplare nel nostro dopoguerra ? Per me, la Cortellesi non narra una realtà prevalente; e si differenzia dal cinema neorealista doc, per questo suo privilegiare una fattispecie vera, ma minoritaria dell’Italia post-bellica; che, di sicuro, non era una landa retriva, dominata da mariti supremi e padri-padroni armati di clave fisiche e immateriali.

Il modello italiano non é stato la famiglia Santucci, ma rispetto e reciprocità

Intanto perché lo stesso film offre situazioni intra-familiari molto diverse e alternative a quella centrale, che sarebbe sbagliato trascurare: é emblematico il rapporto dell’amica fruttivendola Marisa (Emanuela Fanelli), tutt’altro che vittima del marito; anzi piuttosto indipendente, se non dominante. Ma anche le donne del vicinato sembrano abitare esistenze normali, per nulla sottoposte a maschi brutali e maneschi come Ivano (Valerio Mastandrea). E poi perché i nostri album di famiglia, l’heritage aneddotico delle nostre nonne, ci restituiscono verità non coincidenti per nulla con le immagini portate sul grande schermo dalla regista. Tantissimi gruppi familiari, pur tra stenti e privazioni causate dalla guerra, non si sono fatti mancare mai, affetto, accudimento; costruttiva parità nei diritti e nei doveri; e rispetto: reciproco. La reciprocità dei membri della famiglia, senza soprastanti e subordinati, fuori da gerarchie e gerarchi, é stata l’inesauribile arsenale morale per fare fronte alle prove della vita del Novecento. In quante case ? In quanti casi ? Io credo nei più. Insomma, la stragrande maggioranza delle mura domestiche non era il circuito di violenze e umiliazioni di casa Santucci.

Anzi. La tradizione della famiglia italiana, crocevia di scambi simbolici tra i partner e tra questi e i figli, é complessa; talvolta non distante da un quasi-matriarcato di fatto, nel quale la donna-madre aveva un ruolo pari o più forte dell’ “uomo di casa” che portava i pantaloni. Lui svolgeva una funzione di “rappresentanza” e Lei prendeva le decisioni e gestiva il bilancio interno: insomma, il presidente e l’amministratrice delegata della coppia, dell’azienda-famiglia. Ecco la governance vera. Di cui abbiamo tracce evidenti ancor oggi. Uniforme? No. Ma era la più diffusa. Ovvio, con varianti e distorsioni, anche estese; ma, secondo me, regola non eccezione.

Cineasti tra callida ingenuità e impegno messianico

Ok: la missione che si danno oggi tanti cineasti – tendenza di lungo periodo – é soprattutto quello di rappresentare i diritti delle minoranze: sociali, etniche, sessuali, culturali; anzi, in questo impegno molti artisti vedono la propria funzione planetaria civile: si sentono investiti di un’incombenza messianica.
La Cortellesi sta in questo esercito della salvezza, non si allontana da stereotipi collaudati. Non c’è da meravigliarsi. Ma lo fa con maestria, le va riconosciuto.

La prima premier donna esclusa dalla rivoluzione delle donne

In finale, Paola conferisce un valore rivoluzionario al primo voto delle donne, in occasione del referendum del ‘46: con una buona dose di callida “ingenuità” assegna alla partecipazione femminile il successo della Repubblica; e crea la magia che dal pubblico quel voto si sia rovesciato nel privato, trasformando gli stili di vita: l’arte é immaginazione, non ha l’obbligo di raffigurare il reale. E qui la nostra réalisatrice é coerente con le “magnifiche sorti e progressive” del suo mondo ideale. Ma, forse, in quei titoli di coda, ci stava pure una riga su quel primo voto delle donne che avrebbe “generato” un giorno una premier donna alla guida del governo della Repubblica: la prima della storia d’Italia. Di destra, ma figlia di quel voto. Bastava un granello di coraggio. Ci stava, ma non ci sta. Peccato.

Ps: fatelo sapere a Sor Ottorino (Giorgio Colangeli): come tanti italiani, sono figlio di cugini che si sono amati e rispettati per tutta la vita e oltre, fin “lassù”; matrimonio d’amore, libero, per nulla imposto, che ha funzionato alla perfezione e che ha “prodotto” quattro figli, che sono loro grati, per la vita ricevuta e per tante altre cose. Sono, così, testimone dubbioso dell’aderenza critica del film al “suo” tempo; a una contemporaneità che oggi c’è non più. Oggi non é ieri e viceversa; com’è giusto.

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