Premierato, le critiche alla riforma del governo Meloni sono una sequela di assurdità: ecco perché
L’esecutivo Meloni ha presentato quindi una proposta di riforma costituzionale che incide sulla forma di governo: un modello italiano di premierato fondato sull’elezione diretta. Tra politici che si credono costituzionalisti e costituzionalisti a cui piace fare i politici, si legge e ascolta di tutto. E altrettanto dai colleghi progressisti: é davvero scandaloso che la Meloni che ogni giorno i media chiamano “premier”, presenti una proposta di premierato?
La riforma ? É un vincolo imposto del programma
Vogliamo fermarci a riflettere un attimo? C’é una questione preliminare: il governo Meloni non é libero di fare o non fare: é vincolato dal programma sul quale la coalizione di centrodestra ha ottenuto il voto. Che quindi non è più “suo”, ma del “popolo”. E il programma prevedeva il “presidenzialismo”. Ma la premier “di nome” – ora le rimproverano pure di fatto, per l’accordo con l’Albania – che vuole il premierato reale è oggetto di critiche tanto aspre, quanto contraddittorie: ora le opposizioni l’accusano essere troppo “di destra” – “Terza Repubblichina”, titola il Manifesto, ormai ombra dell’ intellighenzia che fu -; ora di non mantenere le promesse elettorali, “di destra”. Più che “altrove”, una sola cosa la premier “doveva”: adempiere al mandato che ha avuto dai cittadini; sono loro che l’hanno incaricata di riformare il nostro sistema politico con due punti-luce: la coerenza di mandato – cioè stop a ribaltoni e gabinetti tecnici – e la stabilità dei governi, anomalia tutta italiana. Ciò che ha fatto.
Macché affronto al Quirinale. Il vero vulnus è il non divieto di “bis” per i presidenti
Nel merito, ci sono tre tematiche che vale la pena chiarire. La prima: è un non senso sostenere che riformare le nostre istituzioni in direzione presidenziale sarebbe un “affronto” o qualcosa del genere all’attuale inquilino del Quirinale, Sergio Mattarella. Non c’è nella riforma, ma anche se in futuro diminuissero i poteri del Colle, non ci sarebbe alcuna mancanza di riguardo verso il capo dello Stato: fosse così la Carta del ‘48 non si potrebbe cambiare mai per non turbare i titolari pro tempore delle alte cariche. La riforma, peraltro, entrerebbe in vigore al termine del bis di Mattarella. Il quale – lunga vita e salute al Presidente – starà al Quirinale per 14 anni: questo é il vero vulnus, ultra-presidenzialista e di stampo monarchico, alla Costituzione. Imbarazzante tema, quello del doppio mandato, sul quale i costituzionalisti progressisti – quelli della Carta più bella del mondo et cetera – stanno muti.
Si alimentano timori speciosi per l’elezione diretta del premier, ma ci teniamo in Costituzione una norma che non vieta più settennati al presidente della Repubblica: abbiamo già l’inedito duplo di Napolitano e Mattarella, ma in ipotesi sarebbe possibile un tris, se i partiti decidessero così e l’eletto avesse un’età che lo consentisse; il che significa essere eletti “a vita”; né più, né meno di un regime monarchico; salvo rinuncia o abdicazione dell’interessato se volete chiamarla così, tanto é la stessa cosa: ciò che accadde con Re Giorgio, come veniva definito Napolitano. La “riforma Meloni” non affronta la questione, forse per eccesso di deferenza verso Mattarella, il quale, in ogni caso, non ne sarebbe “toccato”, prevedendo la norma per il futuro. Ma tant’è. Lo scrivo per fare comprendere l’assurdità della paventata “deriva autoritaria” addebitata alla riforma.
I senatori a vita antistorico retaggio monarchico
Consapevole o meno, questa contraddizione é attraversata da una logica cripto-monarchica; che è antitetica a quella “di portare la legittimazione democratica al più ampio numero possibile di istituti della forma di governo” dichiarata nel ddl costituzionale. Il quale abolisce la categoria dei senatori a vita: pure questa modifica fa registrare critiche per amore di polemica. In verità, anche i senatori a vita sono espressione di un retaggio “regale” che contraddice i principi della Costituzione; per di più, sono una presenza che squilibra la composizione del Senato, i cui membri si sono ridotti di numero, dopo il “taglio” dei parlamentari. Secondo voi perché la Carta prevede i senatori a vita? Semplice: perché cento anni dopo lasciò inalterato lo Statuto Albertino del 1848, esteso allo Stato unitario e rimasto in vigore anche durante il ventennio mussoliniano. Eccolo qua l’articolo 33 dello Statuto:
”Il Senato è composto di membri nominati a vita dal Re, in numero non limitato, aventi l’età di 40 anni compiuti, e scelti nelle categorie seguenti…Coloro che con servizi o meriti eminenti avranno illustrata la Patria…”. Al numero 20 della vecchia norma c’è la traccia letterale della filiazione della Costituzione vigente dal suo antenato Statuto: “avere illustrato la Patria”. L’articolo 59 dell’attuale Costituzione, infatti, riserva alla nomina presidenziale di senatore a vita “cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. Appunto “illustrato la Patria”, lessico identico: vestigia del tempo in cui “Lo Stato è retto da un Governo Monarchico Rappresentativo. Il Trono è ereditario secondo la legge salica”, come recitava l’articolo 2 dell’Albertino. I presidenti della Repubblica hanno ereditato questo potere regio, ovviamente in forma ridotta. I cinque senatori della Repubblica nominati dal Capo dello Stato sono a vita come i senatori nominati dal Re che allora sceglieva l’intero Senato del Regno. Un evidente anacronismo: la riforma vuole superarlo, ma si riesce a criticare persino questa scelta che dovrebbe essere condivisa. Nulla da fare.
Nelle forme di governo la regola in Europa è la differenza non l’uniformità
Ultima questione: la globalizzazione e lo stesso sistema unionale europeo, in quanto alle forme di governo, non hanno dato vita a una tendenza di uniformità dei sistemi politici. É veramente difficile trovare in Occidente e in particolare in nel Vecchio Continente, due sistemi politici perfettamente uguali, dalla forma di governo alle leggi elettorali. Si può sostenere che questo spazio di sovranità assoluta, gli Stati nazionali se lo tengono ben stretto. Anzi, pare proprio che la globalizzazione abbia provocato una compensazione in senso nazionale di istituzioni e dinamiche del governare: è una inclinazione che accomuna tutti i Paesi del mondo libero, oltre le latitudini geografiche e politiche. Quindi, quando si sostiene approssimativamente che il modello immaginato dalla Meloni é un “pasticcio” perché non “imita” quello adottato in altre “democrazie stabilizzate”, non si ha consapevolezza della voluta “alterità” reciproca delle forme di governo nel mondo libero.
I “cercatori” di somiglianze istituzionali
Un solo esempio per rendere l’idea delle “vie nazionali” alle riforme istituzionali: in Francia vige il semi-presidenzialismo di origine gaullista. Il Portogallo – lo cito perché siamo dentro l’attualità, per le dimissioni del premier Antonio Costa – che ha cercato di imitare la V Repubblica, ha prodotto “un’altra cosa”: un finto semi-presidenzialismo, che nulla ha a che vedere con i poteri del presidente della Repubblica francese; il presidente della Repubblica, Marcelo Rebelo de Sousa, pur eletto dal popolo, ha meno poteri di Mattarella: non ha competenze di diretta direzione politica e non ha alcun ruolo nel “Programa do Governo”; le sue attribuzioni lasciano inalterata la forma di governo che é sostanzialmente parlamentare: il “primato” resta nelle mani del capo del governo. Lo scrivo soprattutto per i cercatori di somiglianze istituzionali,
ad ogni costo. Ma, poi, questa fissa della necessità di avere istituzioni uguali, da dove arriva ?
L’originalità del modello è la regola in Europa e nel mondo
“Per il comparative law in book e il comparative law in action – osserva Tommaso Edoardo Frosini nel volume di diritto pubblico comparato dallo stesso curato per Il Mulino (2022) – rimane e permane il metodo delle differenze, anche l’esaltare le diversità e farlo con particolare riferimento allo scenario del diritto globale, con il suo carattere transnazionale oltre che nazionale e sovranazionale. Bisogna diffidare delle convergenze, ovvero delle consonanze”. Nella comunità scientifica si ragiona così, ma nell’acquario della politica nostrale, sono tutti impegnati a criticare “l’originalità” del modello Meloni; che, invece é “la regola”, in Europa e nel mondo.