Buttafuoco ricorda Nino Strano: “Lo guardavi e lo trovavi già perfetto per l’impresa di Fiume”

12 Nov 2023 10:05 - di Annalisa Terranova

Un esteta, un dandy, un libertario. Da ieri, nel mondo che lo saluta e lo rimpiange, si susseguono e si intrecciano le definizioni di Nino Strano, l’ex parlamentare catanese morto a 73 anni. Nella sua vita ha unito alla passione politica quella per lo spettacolo. E’ stato – ricorda il Corriere – aiuto regista di Mauro Bolognini per i film Metello e Un bellissimo novembre, quest’ultimo tratto dall’omonimo romanzo di Ercole Patti. Fu poi aiuto regista in una Bohème messa in scena al Teatro Massimo di Palermo, nel Pipistrello di Strauss e in Norma di Vincenzo Bellini, al Teatro Massimo Bellini di Catania. Per la realizzazione di una Zaira di Bellini fu aiuto regista di Attilio Colonnello. Fu infine aiuto regista di Franco Zeffirelli per il film Storia di una capinera. Ma la sua personalità eclettica è difficile da racchiudere in un solo aggettivo. Prova a definirla meglio Pietrangelo Buttafuoco, anche lui come tanti addolorato per la scomparsa di quello che fu il principe della Catania “nera”.

Lo ricordano tutti perché mangiò la mortadella in Senato per festeggiare la caduta del governo Prodi…

Ma il gesto della mortadella era tutto dadaista. Perché lui non amava i codici di volgarità e aggressività verso l’avversario. Si divertì da pazzi, quel giorno, ad avere individuato un pullover che era intonato al colore della mortadella che addentò platealmente.

Un gesto estetico?

Per lui la politica era anche estetica, era soprattutto estetica. Il suo maestro, non dimentichiamolo, era Franco Zeffirelli. Quando Zeffirelli presentò a Catania la prima del film Storia di una capinera e nei titoli di coda apparve la dedica a Nino, ci fu un boato. I suoi orizzonti erano Taormina, Ravello, Cannes. Per lui la politica era melodramma non tragedia. Si divertiva a stupire. Nino era la conferma che il mondo della destra è fatto di uomini e donne tutti diversi tra loro ma che fanno la stessa battaglia. Non c’era omologazione.

In quale ambiente politico è cresciuto Nino Strano?

Era una figura di riferimento della Giovane Italia e del Fuan, era un gruppo il suo che aveva riferimenti in Peppe Tricoli e Paolo Borsellino, era legato a Franco Petronio e Alfredo Mantica. Erano tutti molto eleganti. Fu messo alla prova in Sicilia come assessore regionale allo spettacolo e al turismo, e non c’era festival dove non ci fosse lui. Colpiva anche per il suo colorato codazzo che manco un Almodovar si poteva sognare. Le sue segreterie elettorali erano coloratissime, erano tutti trans, molto pittoreschi…  ma lì non albergava la lagna dell’arcobaleno. Era un devoto cultore di tutte le libertà. Quando Fini disse che un omosessuale non poteva fare il maestro lui commentò: “Ha detto maestro mica assessore”. Ma quello di ammiccare all’omosessualità era un gioco, il suo vero desiderio erano le donne.

Nel 2017 pubblicò un libro, “Je ne regrette rien, la libertà è un hula hoop“. Un titolo che parla di fedeltà alle idee e di trasgressione. E’ la suo originalità, infine, quello che lascia in eredità al suo mondo? 

Tu lo guardavi e lo vedevi già perfetto per l’impresa di Fiume, non a caso il suo orizzonte finale è stata Taormina. Come a sinistra hanno avuto Renato Nicolini lui a destra fu quello che primo tra tutti capì l’importanza di costruire l’immaginario. Già la sua città era una sorta di vanity fair, aveva capacità di sorrisi e vizi sublimi, era proprio guascone.  Al Senato quando parlava e quelli di sinistra gli urlavano “finocchio” lui commentava con ironia: “Che mi stanno dicendo? Ah finocchio? Avevo capito Pinocchio. Perché io bugie non ne dico…”

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