Mancini (ex Sismi) racconta le sue missioni impossibili: dalla lotta alle Br ai “biscotti donati a Renzi”
Marco Mancini è stato innanzitutto un servitore dello Stato. Una lunga carriera, la sua, spesa con abnegazione per proteggere i suoi connazionali, gli italiani. Lo racconta in un libro scomodo, Le regole del gioco (Rizzoli) nel quale tenta di riabilitare se stesso e il controspionaggio offensivo di cui è stato uno dei protagonisti. Un’operazione necessaria dopo la sua precipitosa caduta in seguito all’incontro nell’autogrill di Fiano con l’ex premier Matteo Renzi. Una carriera, come racconta nel libro, che va dal settembre 1979 al luglio 2021, data del suo pensionamento forzato, e che lo ha visto vestire prima la divisa di carabiniere della Sezione speciale anticrimine e poi quelli di agente segreto nei servizi di intelligence, fino a diventare capo del controspionaggio (Sismi).
L’arresto di Mikati in Libano nel 2004
Nel libro di Mancini c’è un bel pezzo di storia italiana vista da dietro le quinte. Gli episodi che racconta sono degni di una spy story da seguire col fiato sospeso ma non sono frutto di fantasia. Corrispondono a fatti reali. Come l’arresto, nel 2004, a Beirut, di Ahmad Mikati, capo di al-Qaeda in Libano e latitante da oltre dieci anni, mentre era in procinto di colpire, con 400 chili di esplosivo, l’ambasciata italiana nel paese dei cedri. O le missioni in Iraq, sotto il governo Berlusconi, per liberare gli ostaggi senza pagamento di riscatti.
Gli attacchi subìti da Mancini
Eppure, recrimina Mancini, le missioni che ha compiuto non hanno prodotto medaglie, non congratulazioni, non solidarietà “ma attacchi ripetuti alla mia reputazione (con un discreto successo verso i media) e al mio equilibrio psicofisico (che ancora regge)”. Ed elenca gli attacchi subiti. “1. per il sequestro di Abu Omar, sono stato indagato e incarcerato a San Vittore per diversi giorni. Sulla vicenda è stato apposto il segreto di Stato, confermato da ben sette presidenti del Consiglio. Segreto all’interno del quale sono custodite le prove della mia innocenza. Risultato: prosciolto dopo circa dieci anni di processi nelle aule giudiziarie – quelli mediatici non si sono mai fermati; 2. per il caso Telecom-Sismi, sono stato indagato e arrestato, ho passato sei mesi di custodia cautelare nel carcere di Pavia, in isolamento, e, dopo essere uscito di prigione, altri sei mesi fra domiciliari e
obbligo di firma. Risultato: prosciolto in udienza preliminare dal Gup di Milano. Ovvero, niente rinvio a giudizio ma molta galera; 3. per l’affaire autogrill, cioè la consegna di una scatola di biscotti a Matteo Renzi per un augurio prenatalizio, il 23 dicembre 2020, governo Conte due in corso… immediato pensionamento coattivo”.
La cattura del brigatista Alfieri
Come carabiniere della sezione speciale anticrimine creata dal generale Dalla Chiesa, Mancini contribuì con notevole successo allo smantellamento del brigatismo rosso. Racconta infatti della cattura di Vittorio Alfieri, capo delle Br milanesi. Il 10 dicembre del 1981 Vittorio Alfieri, aiutato da Giorgio Semeria, strangola nel bagno attiguo al refettorio della prigione un ragazzo grande e grosso di vent’anni, Giorgio Soldati, in esecuzione della sentenza emessa nei confronti del «verme» che si era consegnato ai brigatisti per essere giustiziato, versando «lacrime di coccodrillo». Le parole tra virgolette sono testuali. “Il comunismo si ripete sempre uguale – commenta Mancini – Come alla Lubjanka di Mosca, così nel super carcere di Cuneo; come Stalin e Berija, così Alfieri e Semeria. La storia è molto istruttiva. Soldati si era messo nelle mani dei compagni brigatisti per essere giudicato e punito da coloro che erano il suo mito, e nel cui novero ambiva a entrare. Confessò per iscritto di aver cantato, gli dispiaceva tanto, ma lo aveva fatto perché costretto, e aveva rivelato nomi e indirizzi, causato arresti e portato alla demolizione di basi. Nessuna di queste informazioni sarebbe risultata a verbale: lui aveva ritrattato subito, non c’era nulla da fargli firmare. La faccenda doveva restare nella zona grigia, era evidente. Il papà, Mario Soldati, disse di aver visto in Questura il volto del figlio sfigurato dalle percosse, «irriconoscibile». Venne recluso nel super carcere di Cuneo. Perché proprio lì? C’erano già stati altri delitti e poco tempo prima vi era stato aggredito Mario Moretti, sospettato da compagni di essere un infiltrato. Era la gabbia delle tigri vendicatrici! Soldati non fu protetto dallo Stato italiano, che lo estradò nelle mani infami delle Brigate Rosse. Fu messo nell’ala del carcere cuneese dominata dalle cinque punte”.
L’arresto di Sergio Segio di Prima Linea
E’ un racconto ad alta tensione anche quello dell’arresto di Sergio Segio, il comandante Sirio di Prima Linea. “Appoggiai la pistola alla sua nuca, sentii il suo alito. Il caffè che aveva bevuto pochi minuti prima, la paura della morte. Il killer era in mia balia. Ma era una persona, e la sua vita da terrorista sanguinario non era mia. Dissi: «Carabinieri, Sirio! Alza le mani». Lui aveva sentito lo scatto del cane della mia pistola: un solo fremito e mi sarebbe partito un colpo, lo sapeva bene. E lo sapevo anch’io. Quando conduceva le azioni militari si diceva che la sua voce fosse ferma, chiara, scandita. Adesso invece tremava. Sirio non ostentava la spietatezza che si deve avere quando si commettono delitti spaventosi. Aveva più paura di me, aveva capito che non poteva fare alcuna mossa, altrimenti sarebbe stata l’ultima. «Ok! Sono disarmato, non sparare!» sussurrò alzando le mani. Intervenne immediatamente Tavola, che gli puntò il mitra sotto la gola. Gli mettemmo le fascette ai polsi e arrivarono altri colleghi. Ricordo Titti, il più anziano, e Zampa. Fermammo una R4, proprio come capita di vedere nei film americani, per requisirla. Vi caricammo Segio. Il conducente non si impaurì. Anzi, la scena era talmente western che ci chiese a quale film stessimo lavorando, orgoglioso di essere stato un attore per caso”.