Tutti a stracciarsi le vesti sull’abaya: simbolo religioso o indumento tipico? Attal: un abito identificativo

6 Set 2023 17:01 - di Chiara Volpi
abaya

Tutti a stracciarsi le vesti sull’abaya. Il governo francese, che della laicità della scuola pubblica ha fatto un principio cardine della sua agenda. Griffe, commercio di settore e influencer musulmane a tendenza integralista, che hanno rilanciato la battaglia su YouTube. In mezzo, le studentesse che vivono in Francia, divise tra irriducibile opposizione al divieto di indossare l’abito tipico in classe, compromesso e accettazione. Tutti, di fatto, chiamati a rinfocolare un dibattito che negli ultimi giorni ha alzato la temperatura dello scontro e si è fatto incandescente.

Divieto di abaya: il dibattito s’infiamma

Così oggi, dopo la notizia di una ripresa turbolenta delle lezioni oltralpe – specie a Lione – dove una buona parte delle studentesse ha girato le spalle al divieto e se n’è tornata a casa pur di non cambiarsi d’abito, nella discussione sempre più infuocata è intervenuta anche Rosanna Maryam Sirignano, membro del Centro Culturale Islamico di Italia, la Grande Moschea di Roma, e fondatrice di MaryamEd Formazione Transculturale. La quale, parlando con l’Adnkronos, ha spiegato: l’oggetto del contendere in questione è un «modello di tunica tipicamente arabo che si è poi diffuso in diverse parti del mondo», e «non un simbolo religioso».

Sirignano (Moschea Roma): «Non è simbolo religioso, ma un abito tipico»

Non solo. Autrice di Il velo dentro, dove parla proprio di abbigliamento islamico, la Sirignano ritiene inoltre che «uno Stato non dovrebbe intervenire su scelte personali e intime come quelle del vestiario». Ed è convinta che la misura introdotta in Francia non possa essere adottata in Italia. «Non penso che in Italia possa essere introdotta una misura simile, abbiamo una storia e un rapporto con la religione molto diverso» da quello francese, afferma.

«La scelta dell’abito dovrebbe restare individuale e libera: lo Stato non intervenga»

Certo, prosegue la docente di arabo e studi islamici, «in ogni società esistono delle regole non scritte su ciò che è conveniente o meno indossare». Ma «la scelta dell’abito dovrebbe restare individuale e libera, avendo ognuno il diritto di disporre del proprio corpo secondo la propria coscienza»… E allora, volendo approfondire l’argomento, è innegabile che la maggior parte delle fonti lasci intendere che l’abaya ha effettivamente funzione di hijab in molti Paesi della Penisola arabica. Che in Europa è diventato un segno religioso di appartenenza, come fosse un simbolo da esibire in pubblico. E che questo abito è spesso utilizzato come indumento di cortesia per le donne che visitano luoghi di culto, come le moschee, in quanto rispetta i principi di modestia e decoro richiesti.

Abaya, un punto che accomuna sostenitori e detrattori della misura

A questo va aggiunto, però che come rileva la Sirignano, l’indumento in questione  «si usa anche per danzare il folklore e altri stili di danza popolari arabe»… Tutto sembra convergere, allora, su un punto che – incredibilmente – avvicina sia detrattori che sostenitori del provvedimento francese: l’abaya, volendo unire modernità e tradizione, rappresenta un modo per le donne di esprimere la loro identità e la loro fede religiosa. Ed è su questo – oltre che sulla legge del 2004, volta a preservare la laicità nelle scuole pubbliche francesi, in base alla quale già risultano vietati il velo musulmano. Le grandi croci cristiane. Kippa ebraiche e turbanti indossati dai sikh – che il divieto si aggancia.

La replica del ministro Attal alle recriminazioni sul divieto

Indossare l’abaya, ha sostenuto non a caso il ministro dell’Istruzione francese Gabriel Attal, rappresenta «un gesto religioso, volto a testare la resistenza della Repubblica al santuario laico che la scuola deve essere», promettendo misure ferme che ha poi confermato anche durante un’intervista televisiva rilasciata nelle scorse ore. Dove ha aggiunto in calce: «Quando si entra in un’aula, non si deve essere in grado di identificare la religione degli alunni guardandoli», ha spiegato il titolare del dicastero dell’Istruzione a TF1. Una replica a chi, in queste ultime settimane, ha parlato di operazione “islamofoba”. E accusato la misura di essere la testa d’ariete di una più vasta operazione ideologica votata alla discriminazione.

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