Caso Amara, i giudici: Davigo ha usato verbali per fare terra bruciata intorno ad Ardita

3 Lug 2023 14:47 - di Redazione

Ci sono ancora alcuni punti poco chiari nella vicenda della cosiddetta Loggia Ungheria e nello scambio dei verbali del consulente legale esterno dell’Eni, Piero Amara che passarono di mano dal pm milanese Paolo Storari all’allora consigliere del Csm, Piercamillo Davigo.

È quanto sostengono i giudici della prima sezione penale del Tribunale di Brescia, presieduta da Roberto Spanò, nelle 111 pagine della motivazione della sentenza con la quale, lo scorso 20 giugno, hanno condannato l’ex-pm di Mani Pulite, Piercamillo Davigo a un anno e tre mesi (pena sospesa) per rivelazione di segreto d’ufficio nella cosiddetta inchiesta milanese sul caso loggia Ungheria.

Pur chiarendo che fra il pm di Milano, Paolo Storari e l’allora consigliere del Csm, Piercamillo Davigo, si era creato “un cortocircuito sinergico reciprocamente fuorviante” i giudici del Tribunale di Brescia sottolineano che “nel dibattimento non è stato possibile rischiarare compiutamente quanto sia realmente avvenuto all’epoca del fatto e, in particolare, se quella del sostituto sia stata davvero un’iniziativa ‘self made’ o non vi sia stato, invece, un qualche mentore ispiratore, come pure farebbero pensare alcuni passaggi rimasti in ombra”.

“Fatto sta – riconoscono i giudici bresciani – che Storari ha rappresentato all’imputato una situazione distonica rispetto a quella reale, facendogli intendere, contrariamente al vero, che vi fossero resistenze rispetto all’indagine che intendeva sviluppare”. E, cioè, che da parte dei vertici della Procura di Milano, in particolare il capo dell’ufficio Francesco Greco, storico collega di Davigo nel pool Mani Pulite, ci fosse una presunta inerzia a procedere sulle dichiarazioni rese dall’avvocato Piero Amara sull’ipotetica loggia massonica, sentita da tutti.

Davigo, “da parte sua, non si è limitato ad accettare l’incontro quale ‘atto di elementare cortesia e colleganza’, ma ha cavalcato l’inquietudine interiore dell’interlocutore che si era rivolto a lui con circospezione ‘essenzialmente per avere un consiglio’. A fronte delle titubanze del pm, Davigo gli aveva fatto presente che al Consiglio superiore e, dunque, ‘per traslazione ai singoli componenti’, non è opponibile il segreto. In tal modo l’imputato ha indotto il collega a compiere un atto extra ordinem quale la consegna brevi manu di copia dei verbali secretati, benché ‘in teoria’, la strada maestra per investire il Csm della questione fosse, per sua stessa ammissione, quella di ‘fare un plico riservato’” sottolinea la Corte.

“La vicenda dimostra come, con il proprio incedere, l’imputato abbia allargato in maniera indebita la platea dei destinatari della rivelazione e che non si sia ‘acquietato’ nemmeno – sottolinea la Prima sezione penale del Tribunale di Brescia – dopo aver raggiunto lo scopo asseritamente perseguito, ossia quello di instradare il procedimento ‘Ungheria’ nei binari della legalità quando la Procura della Repubblica di Milano aveva iscritto il 12 maggio 2020 della notizia di reato”.

“Le motivazioni offerte da Davigo per giustificare l’incontinenza divulgativa e i criteri di selezione adottati nella scelta dei depositari del segreto sono state assai variegati ma, in nessun caso, ricollegabili a fini ordinamentali – precisano i giudici bresciani. – Del resto, le modalità quasi ‘carbonare’ con cui le notizie riservate sono uscite dal perimetro investigativo di Storari (verbali in formato word, tramite chiavetta Usb, consegna nell’abitazione privata dell’imputato) e le precauzioni adottate in occasione del disvelamento ai consiglieri, avvenuto nel cortile del Csm ‘lasciando – prudenzialmente – i telefonini’ negli uffici, appaiono sintomatiche dello smarrimento di una postura istituzionale” aggiunge la Corte.

“Appare significativo, al riguardo della percezione da parte degli interessasti della irritualità dell’iniziativa assunta dall’imputato, l’imbarazzo con il quale il vicepresidente Ermini ha ricevuto la copia dei verbali e la solerzia con cui si è frettolosamente liberato del possibile corpo del reato” sottolineano i giudici.

I giudici bresciani si soffermano anche sulla rottura della storica amicizia fra Davigo e il magistrato Sebastiano Ardita, anch’egli consigliere del Csm e che Amara ha falsamente indicato come appartenente alla Loggia Ungheria.

“Gli elementi raccolti nel corso dell’istruttoria, se da un lato dimostrano che l’imputato ha utilizzato il tema dell’asserita appartenenza massonica per fare terra bruciata intorno ad Ardita, per altro verso – scrivono i magistrati di Brescia nelle motivazioni della sentenza con cui hanno condannato Davigo – non sono tuttavia in grado di comprovare, con un sufficiente grado di certezza, che abbia strumentalmente ottenuto prima – e divulgato poi – i verbali di Amara con animus nocendi, ossia animato da una cosciente volontà di propalare un’accusa che sapeva mendace in ragione di personalismi o di intenti ritorsivi dovuti a dissidi insorti nel passato con l’ex amico”.

“Le risultanze processuali dimostrano che l’imputato, lungi dal farsi promotore di una missione salvifica per la magistratura a fronte dell’attacco ‘violentissimo … all’ordine giudiziario nel suo complesso’ portato dall’avvocato Amara, abbia piuttosto inteso – accusa la Corte – polarizzare chirurgicamente l’attenzione su Ardita”.

Inoltre “gli albori della vicenda ora all’esame appaiono avvolti da una coltre di opacità. Sembra, ad esempio, poco verosimile – osservano i giudici bresciani – che Storari prima della consegna dei verbali di Amara non si sia consultato con qualche collega milanese (…) È evidente che la prova di eventuali interferenze verificatesi all’interno della Procura di Milano finirebbe per spalancare uno scenario significativamente diverso da quello emerso nel processo”.

La Corte conclude che Davigo non poteva ricevere e diffondere verbali segreti.

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