La tentazione dei magistrati e la super inchiesta: da Bellini alla Falange Armata, dalla mafia ai “neri” e a Berlusconi

23 Mag 2023 19:46 - di Redazione

Sono passati 30 anni, molti processi, tante assoluzioni ma, per il procuratore aggiunto Luca Tescaroli, coordinatore della Direzione distrettuale antimafia di Firenze e titolare, con il sostituto procuratore Luca Turco, dell’indagine tuttora in corso sui presunti ‘concorrenti esterni’ nelle stragi di Milano e Firenze del 1993 e degli attentati di Roma del 1993 e ’94, ci sono spunti investigativi che impongono di indagare ancora su quelle vicende.

“Per verificare se sia dimostrabile sul piano processuale – dice Tescaroli – una convergenza di interessi di ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso nell’ideazione e nell’esecuzione degli attentati

Le parole di Tescaroli sono cristallizzate in un testo scritto per il libroGeorgofili: le voci, i volti, il dolore a trent’anni dalla strage“, a cura dei giornalisti Erika Pontini e Stefano Brogioni, che sarà distribuito venerdì 26 maggio in edicola in abbinamento gratuito con “La Nazione“.

Va detto che l’inchiesta di cui Tescaroli è titolare con il collega Luca Turco sui presunti ‘concorrenti esterni’ nelle stragi è stata, più volte in passato, già archiviata a carico del leader di Forza Italia Silvio Berlusconi e dell’ex-senatore Marcello Dell’Utri che risultano ancora indagati.

Trent’anni sono tanti, sono un terzo della vita di persona.

“A distanza di trent’anni dalle stragi continentali, se possiamo ritenere di avere accertato, nel pieno rispetto delle garanzie degli imputati condannati, una parte oggettivamente molto significativa della verità attorno a quei delitti, segno evidente che lo Stato ha saputo reagire concretamente e che è presente con le sue componenti più virtuose, non possiamo trascurare l’impegno a continuare nella ricerca di una verità sempre più completa – spiega Tescaroli – nel pieno rispetto del segreto investigativo, evitando cedimenti e cercando di impedire l’erosione di quegli strumenti di contrasto che i vertici di Cosa nostra volevano far eliminare ricattando lo Stato a colpi di tritolo”.

“Un tributo – dice Tescaroli – che va reso al vivere democratico, alla memoria delle vittime, al dolore dei loro cari e dei sopravvissuti. È importante non dimenticare mai ciò che accadde e mantenere un impegno costante nel contrasto, fino a quando continueranno a esistere, di Cosa nostra e delle altre strutture mafiose, per non essere obbligati a rivivere quel passato tragico e nefasto”.

“Se il nostro sistema normativo si è rivelato estremamente efficace e sofisticato, come riconosciuto in ogni sede internazionale, permettendo un’azione di contrasto funzionale a raffreddare l’agire d’impronta stragista e a contrastare l’evoluzione dell’operato delle varie strutture mafiose radicate nel nostro Paese, è innegabile – scrive Tescaroli – che, dal 2008, le collaborazioni qualitativamente significative in seno a Cosa nostra si sono diradate e nessuno dei condannati per le stragi del triennio 1992-94 ha trovato conveniente la collaborazione, preferendo morire in carcere o sperare nell’ottenimento dei benefici carcerari (permessi premio, liberazione condizionale, lavoro esterno al carcere, semilibertà), divenuti di recente possibili a seguito degli interventi della Corte Costituzionale; tant’è che alcuni di loro hanno concretamente ottenuto permessi da fruire fuori dal carcere“.

Secondo il procuratore aggiunto della Dda fiorentina, è fondamentale evitare che gli uomini d’onore intuiscano che la spinta investigativa proiettata a ricercare la verità non si è arenata e che lo Stato nel suo complesso considera di primaria importanza la collaborazione con la giustizia; che non si intenda smantellare gli strumenti esistenti, ma potenziarli; e che il contrasto alla criminalità organizzata è in cima alle priorità politico-legislative-giudiziarie, non solo in occasione delle commemorazioni, spesso segnate da retorica celebrativa“.

In questa prospettiva, sostiene Tescaroli, “diventa cruciale rendere più vantaggiosa la defezione dai sodalizi rispetto alla militanza degli uomini di vertice dell’organizzazione e di chi è a conoscenza di quanto è accaduto in quegli anni, potenziando l’efficienza assistenziale del servizio di protezione, rendendo concreto il reinserimento sociale con la possibilità per il collaboratore di intraprendere un lavoro onesto o di percepire gli assegni pensionistici come per tutti gli altri cittadini senza ingiustificati ritardi, rimodulando la normativa esistente in modo che preveda ulteriori e tangibili vantaggi per chi si affida con serietà allo Stato”.

L’indagine in corso presso la Direzione distrettuale antimafia di Firenze cerca di rispondere anche ad alcuni interrogativi precisi. E va a rispolverare vecchie vicende.

Come mai, si chiedono i magistrati fiorentini  l’estremista di destra Paolo Bellini, condannato all’ergastolo in primo grado per concorso per la strage alla stazione di Bologna, s’incontrò con Antonino Gioè, mentre erano in corso i preparativi della strage di Capaci (alla quale contribuì attivamente)? Perché istillò il proposito di colpire la Torre di Pisa? “Le ragioni e le modalità della morte di Antonino Gioè il 29 luglio 1993, all’indomani degli attentati del 27-28 luglio 1993, sono rimaste oscure”, ricorda il magistrato. Cosa accadde a Milano e, in particolare, in via Palestro dopo il 23 luglio 1993, allorché Gaspare Spatuzza lasciò la città e si recò a Roma? Da chi e come fu trasportata la Fiat Uno in via Palestro? Perché tutti gli episodi stragisti (tranne quello di via Palestro) sono stati rivendicati con la sigla Falange Armata, che accrebbe ulteriormente “la carica intimidatoria di quegli attentati”?

E, più in generale, scrive sempre Tescaroli, “non sono stati individuati compiutamente i motivi dell’accelerazione dell’eliminazione di Paolo Borsellino, eseguita a distanza di soli cinquantasette giorni, nelle immediate vicinanze di quella che costò la vita a Falcone, alla moglie e ai tre agenti di scorta (Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani). Non si conosce perché sia cessata il 23 gennaio 1994 la campagna stragista, dopo il fallito attentato allo stadio Olimpico. Perché quell’attentato non venne più riproposto? Il 27 e il 28 marzo di quell’anno si tennero le elezioni politiche, mutò il quadro politico istituzionale e lo stragismo si arenò. Vi è poi il dato, passibile di approfondimento, per cui i vertici mafiosi ricevettero, nel corso del 1992, un segnale istituzionale, consistito nell’avvio di una trattativa, che, nella loro prospettiva suonava come una conferma che la loro attività stragista fosse idonea ad aprire nuovi canali relazionali, capace di individuare nuovi referenti politico istituzionali”.

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