Omicidio Saman, l’assistente sociale racconta le violenze e il terrore: “Mi disse ti prego, aiutami”

31 Mar 2023 15:39 - di Greta Paolucci
Saman

Omicidio Saman, l’udienza di questa mattina in Corte d’Assise a Reggio Emilia fa trapelare tutto l’orrore di cui è intrisa la vicenda della 18enne pakistana scomparsa a Novellara nella notte tra il 30 e il 31 aprile di due anni fa. Oggi, dopo il ritrovamento del corpo della ragazza nella cascina abbandonata a poca distanza dalla casa dove viveva con la famiglia ha rivelato la verità fino in fondo: è stata uccisa dopo essersi opposta al matrimonio combinato dalla famiglia. Vittima sacrificale immolata sull’altare dei precetti che il loro credo religioso e comportamentale impone, e per quella «dignità» familiare, violata – a detta dei genitori, i coniugi Abbas – con quella ribellione “imperdonabile”.

Omicidio Saman, al processo parlano i testimoni

E allora, l’udienza dibattimentale per l’omicidio di Saman Abbas, oggi hanno parlato i testimoni: le persone che hanno cercato di aiutare la giovane a sfuggire dalla morsa familiare che l’avrebbe portata alla morte. Il luogotenente dei carabinieri di Frosinone che più volte ebbe modo di parlare con Saqib Ayub, il fidanzato di cui la 18enne era innamorata e che voleva sposare. E, soprattutto, l’assistente sociale entrata più volte in contatto con Saman Abbas. L’operatrice a cui per prima la ragazza si era rivolta per chiedere aiuto quando i suoi genitori erano in procinto di portarla in Pakistan per le nozze combinate. E da entrambi, nella diversità delle posizioni, è emerso il terrore che i deu ragazzi sono stati costretti a guardare in faccia…

Il carabiniere che ascoltò Saqib

«Ho conosciuto Saqib il 12 febbraio 2021, quando è stato chiamato in caserma per essere sentito a sit su delega dei carabinieri di Novellara, in qualità di fidanzato di Saman. Viveva, in qualità di rifugiato, ad Alvito (in provincia di Frosinone, ndr), ospite di una cooperativa insieme ad altri due suoi connazionali», ha raccontato il militare nell’aula della Corte di Assise di Reggio Emilia, ascoltato come testimone nel processo sull’omicidio di Saman Abbas. Quindi prosegue: «Ho ascoltato le sue parole, si è avvalso di un mediatore della sua comunità perché non parla bene italiano. Non era molto preoccupato, era preparato. Perché ci aveva detto di esser stato già chiamato dagli assistenti sociali di Novellara», ha spiegato il luogotenente da poco in congedo.

«Ci mostrò la foto della fidanzata con le ecchimosi sul volto»

Poi – procede nel suo racconto il carabiniere – «abbiamo ricevuto una segnalazione da Bologna, ad aprile, per sentire nuovamente Saqib, in quanto non si avevano più notizie di Saman. Non lo abbiamo trovato, ci hanno detto che mancava da un mese. Ma il 5 maggio si è presentato spontaneamente per raccontarci che non aveva più notizie di Saman. In quell’occasione – spiega il testimone – sono state acquisite delle comunicazioni su Instagram tra lui e Saman (una foto della ragazza con delle ecchimosi sul viso. E una con un uomo che ci ha detto essere il padre). Così abbiamo verificato come l’ultima chiamata tra i due fosse avvenuta il 30 aprile di quell’anno, alle 23.05. Lui ci è apparso molto più provato. Aveva crisi di pianto. Era impaurito. Si vedeva che stava soffrendo».

«Si vedeva che Saqib era spaventato dalle minacce del padre della ragazza»

Di più. Proseguendo nella sua testimonianza, il carabiniere racconta: «Era spaventato, in una condizione di fragilità per le continue minacce ricevute al telefono dal padre della ragazza». Tre mesi dopo averlo visto per la prima volta, «il 12 maggio – ricorda il militare – ha presentato denuncia nei confronti del padre di Saman per le minacce ricevute da lui tramite telefono. Sono state acquisite in quell’occasione foto, video e screenshot. Lui aveva già presentato un’altra denuncia al commissariato di Sora. E intanto continuava a venire da noi, e mi vedeva chiedeva se ci fossero notizie…

Il racconto dell’orrore ricostruito dall’assistente sociale

Purtroppo poi, dopo mesi e mesi di ricerche e indagini, come noto l’ipotesi investigativa accreditava l’omicidio di Saman. Ma solo dopo il ritrovamento dei resti della 18enne pakistana, si è avuta la certezza ed è arrivata la notizia: quella che nessuno, Saqib in testa a tutti probabilmente, avrebbe mai voluto ricevere. Ma come questa tragica storia è cominciata lo ha raccontato in aula l’assistente sociale che seguiva il caso di Saman e che ha conosciuto i suoi genitori. Così spiega: «Ho avuto il primo colloquio con Saman e i suoi genitori il 27 ottobre 2020. Avevo già chiesto informazioni ai carabinieri che mi avevano spiegato cosa fosse accaduto, dall’allontanamento volontario alla fuga in Belgio della ragazza».

L’incontro coi genitori di Saman

E ancora. «In quell’occasione il papà e la mamma furono molto fugaci nel voler approfondire il discorso dell’allontanamento volontario, mi dissero che per loro era un disonore la fuga della figlia in Belgio, che l’avevano perdonata ma che non volevano far sapere ai connazionali quanto accaduto, vero è che non volevano nemmeno ci fosse la mediatrice linguistica. Saman si è aperta con me solo in un secondo momento – ha raccontato – quando ha capito che poteva fidarsi. Da parte loro c’era il desiderio che si chiudesse il tutto, mi mettevano fretta, più che altro il papà, ma anche la mamma era frettolosa, si capiva che non volevano affrontare l’argomento».

La “doppia” versione della fuga in Belgio

«In un secondo momento Saman mi ha raccontato di essere arrivata in Italia quattro anni prima tramite il ricongiungimento familiare, che aveva terminato gli studi perché gli era stato impedito dai genitori nonostante avesse voluto, che non usciva di casa ma passava le giornate ad aiutare la mamma. Per lei i social erano la finestra sul mondo, anche quando usciva di casa era sempre con qualcuno. Dell’allontanamento della figlia i genitori mi dissero che un gruppo di ragazzi erano andati a prendere Saman sotto casa per portarla via e che potevano testimoniare le telecamere». Versione, appunto, contestata dalla ragazza una volta sola con l’assistente sociale.

«Mi raccontò del padre che le lanciò un coltello ferendo il fratello»

Che ricostruendo motivi e tappe di quella fuga – contestando la versione dei suoi genitori – disse anche all’assistente che una volta rientrata in casa il padre l’aveva picchiata: le aveva lanciato contro un coltello, ferendo a una mano il fratello che si era interposto tra i due. La madre, invece, mi disse che si era ferito nel tagliare l’insalata». Poi arrivò il 9 novembre: «Quel giorno – spiega l’assistente sociale – io ero in Smart working e Saman mi contattò su whatsapp per chiedermi aiuto. Iniziammo a parlare e venne fuori il discorso legato al matrimonio combinato in Pakistan».

Omicidio Saman, «a novembre mi disse: “Ti prego, aiutami”»

«Aveva percepito che sarebbe partita di lì a poco – continua l’operatrice sociale –. Organizzai quindi un colloquio per il giorno successivo in ufficio. Mi chiese anche di non contattarla al telefono ma solo in chat, perché non voleva farsi sentire dalla famiglia. Il giorno dopo venne infatti con la mamma, che feci poi uscire. Saman mi disse che i genitori l’avrebbero portata in Pakistan il 17 novembre per sposare un cugino molto più grande di lei, mi pare di 11 anni. Ma che lei non voleva. Mi disse “ti prego, aiutami”».

Il collocamento in una comunità protetta

«Le spiegai allora cosa volesse dire esser messa in protezione, e mi disse che accettava. Iniziai così coi colleghi a organizzare l’allontanamento che si verificò il 13 novembre. Saman venne portata a Bologna in una comunità educativa per minori. Quando andai a vedere come stesse in comunità, Saman sembrava un’altra persona. Il giorno prima aveva i vestiti classici della loro cultura, in comunità capelli sciolti lunghi, maglietta nera, jeans: era vestita all’occidentale. Le avevamo chiesto se volesse praticare o seguire una particolare alimentazione, ma mi guardò come a dire “anche no”».

Omicidio Saman, in aula parla una seconda operatrice sociale

Ma poi, privata del telefono. Impossibilitata ad incontrare Saqib per motivi di sicurezza, alcune difficoltà relazionali all’interno della comunità, cominciarono a segnare un atteggiamento altalenante di Saman. Tanto che, una seconda operatrice che lavorò per Saman, spiega: «Con Saqib aveva contatti telefonici. C’erano richieste di uscire da parte di Saman, di vedere il ragazzo. Da parte della comunità c’era il tentativo di far capire a entrambi i ragazzi che c’era un problema di sicurezza per Saman, relativamente alla motivazione che aveva portato al collocamento. Per questo abbiamo chiamato Saqib per spiegare anche a lui le accortezze necessarie.

La giovane lascia la comunità: il tragico ritorno a casa

Ci sono stati forse quattro, cinque allontanamenti volontari. Quando lei è diventata maggiorenne. Quando tornava, la comunità sporgeva denuncia. Stava via a volte un giorno, a volte tornava e riusciva la sera, stava con Saqib a Bologna. E ancora: «L’11 aprile siamo stati avvisati dalla comunità del nuovo allontanamento – racconta ancora l’assistente sociale –. Ho avvisato la mia responsabile, ho provato a contattare Saman al cellulare ma risultava spento, non riceveva i messaggi. E anche Saqib non mi rispondeva, salvo poi mandarmi un messaggio per dirmi che era al lavoro e non poteva rispondere. Il 13 aprile abbiamo chiamato quindi Saqib, che ha detto di non avere novità su Saman. L’accordo era di avvisarci. Solo dopo siamo venuti a sapere che il 22 aprile la ragazza era rientrata a casa»..

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