Meloni fa bene a non piegarsi al lessico progressista: è lontano dal popolo. Replica a Galli della Loggia

16 Mar 2023 12:00 - di Carmelo Briguglio
Meloni lessico

Ha ragione Ernesto Galli della Loggia che ammonisce la destra al governo ad avere “parole all’altezza del ruolo” (Corriere del 13 marzo) ? Vediamo, senza pregiudizi e remore, peraltro l’autore non li merita. Secondo il professor Galli della Loggia la destra che ha vinto le elezioni, prioritariamente “ha l’obbligo di farsi carico anche di coloro che il giorno delle elezioni hanno votato per i suoi avversari”. A me pare, Giorgia Meloni lo stia già facendo. La controprova ? 

Meloni paga lo sforzo di essere premier di tutti 

La premier paga, per ciò, un prezzo quotidiano: le opposizioni e i media a loro vicini le rimproverano – è un paradosso, ma è così – un cambiamento di postura e di policy; l’accusa – finanche di essere “draghiana” – è di non essere e non portare avanti più le sue tesi identitarie “di prima”; di essere incoerente nel passaggio dai banchi dell’opposizione a Palazzo Chigi. Pochi sono gli osservatori in buona fede. Sono più numerosi quelli che, in modo malevolo, ricercano pure i minimi distanziamenti nella transizione da rappresentante di una parte a capo del governo della Repubblica. Che – per andare al monito di Galli della Loggia – deve essere rappresentativo di tutti: è il dato che, a me pare, il professore abbia del tutto trascurato. 

Il presidente del Consiglio al congresso Cgil, raffigurazione plastica 

Dall’Europa, alle alleanze internazionali, all’economia, fino all’immigrazione: il Primo ministro donna sconta l’andare verso istanze e principi che non sarebbero i “suoi” in senso stretto; il provare a interpretare, almeno in talune occasioni, il sentire politico anche dei “distinti e distanti” dal suo partito e schieramento legittimati dal consenso popolare; il che, come qualche volta accade sul lato estetico della politica, avrà una raffigurazione plastica con l’intervento che la premier, invitata da Landini, ha accettato di fare al congresso della Cgil: (a cui, in verità, andò la solidarietà della stessa Meloni quando il sindacato fu attaccato da gruppi della “destra” extraparlamentare). Il che significa che alla Presidente andrebbe riconosciuto – è così non é – almeno lo sforzo di cogliere l’essenza di un concetto – che so essere molto importante per l’autore – che è quello di Nazione. 

Per Galli della Loggia la destra si deve adeguare al “galateo progressista” 

Galli della Loggia ritiene però – ecco la tematica per lui più rilevante – che anche adempiere a ciò, non sia sufficiente. Per lui c’è una questione su tutte: é “come se la maggior parte dei politici della destra italiana avessero fin qui vissuto in un altro Paese; un Paese dove non vigevano le convenzioni linguistico-culturali, le regole del galateo istituzionale”. E che la destra, trascura il peso delle parole e il loro “effetto contundente”, perché – sintetizzo – ritiene di non adeguarsi a “convenzioni linguistiche e regole di buona creanza ‘democratica”. E ciò nella convinzione erronea che esse siano “niente affatto neutre bensì create dalle culture politiche a lei avverse e pertanto ad uso e consumo esclusivo della sinistra”. E ciò perché la destra non ha consuetudine, né con l’etichetta lessicale globale universalmente adottata “da New York ad Atene”; né “con il potere socio-culturale, con i luoghi, le relazioni, i libri, da dove nasce e si afferma il modo di essere del paese che conta, e che quindi per così dire, dà la linea”.

La “rive droit” ha parole e valori antitetici alla lingua “gauche” 

Apprezzo la paideia di Galli della Loggia, il quale sembra volere dare consigli a un mondo che gli è prossimo (almeno) come oggetto di studio. Ma non concordo con lui per un paio di ragioni oltre quella sopra accennata. La destra, intendo politica, ma anche la sua area e le sue intelligenze, fanno bene a non adottare i codici linguistici e in definitiva culturali che in realtà – ecco secondo me il primo scacco del ragionamento di Galli della Loggia – sono e nascono da matrici antitetiche ai propri valori e riferimenti morali; alla propria intuizione del mondo e visione stessa delle istituzioni politiche e sociali: tutto ciò, com’è naturale, non é comprimibile in una concezione unica, ma plurale. Lasciamo stare le bassure in cui non mi risulta che nella “rive droit” che conosco, qualcuno sia alcuno caduto (“negro”, no davvero); e, senza perderci in lunghe riflessioni teoriche, sto nella contemporaneità politica: basti pensare alle discussioni sui “diritti civili” dall’uso delle droghe “leggere”, alla maternità surrogata, fino all’eutanasia legale, tematiche di cui la nuova segretaria del Pd, Elly Schlein, é icona; o alle forme di governo, a partire dal cosiddetto “presidenzialismo” o ancora alla riforma fiscale che ha annunciato il governo; tutte materie che ci restituiscono concezioni della vita pubblica parimenti “democratiche”, ma diverse e alternative; ne discende, com’è ovvio, un logos differente della destra da quella che per Galli della Loggia è un’”etichetta espressivo-comportamentale da cui non si può prescindere”. 

Il vocabolario progressista non é universale, é elaborato da ambienti ristretti 

Sono certo che l’editorialista del Corriere non si voglia perdere dietro gaffes reali o costruite, forzature, improprietà lessicali, ingenuità da noviziato, ben note, ma dalle quali non sono state e non sono esenti gli altri schieramenti; e poi: gli stupidari esistono da sempre, sono equamente distribuiti, ora più che mai in un tempo così social in cui legioni di imbecilli “hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel”, diceva Eco. No, non si tratta, come ritiene Galli della Loggia, di bon ton comportamentale e linguistico, non di sinistra, ma che la sinistra, a differenza della destra, sa subito adottare e fare proprio. Sostenerlo per me è un errore di valutazione (che mi sorprende). Perché, in realtà, quei dizionari del dire e del fare nel vivere associato sono forme specifiche del profilo liberal e distinguono la classe dirigente che esso esprime, com’è in fondo fisiologico. Ma parliamo di modelli coltivati negli spazi dove, in fuga dai luoghi della produzione e della fatica operaia, si ritrova ormai a suo agio la “gauche”: ambienti insigni, ma per nulla maggioritari, con “comandamenti” che non sono affatto universali; piuttosto, elaborati da cerchie sociali che pretendono essere “più avanzate”, ma che in realtà sono ristrette, rispetto al resto dell’”orbe terracqueo” (a me piace, chissà perché ad alcuni no). E’ un acquis prodotto da ceti intellettuali esclusivi, da elites dello spettacolo e dell’accademia, da strati abitatori di quartieri in delle aree metropolitane (ridicolizzati da Woody Allen nella sua filmografia sulla società newyorkese), dai famosi residenti delle Ztl, da una nuova classe sociale magra ma influente, appartenente alla finanza, ai giornali blasonati, alle case editrici, alla tv pubblica. 

Il potere di un’antistorica aristocrazia lontana dal popolo 

Un potere che si compiace e si autorappresenta come democrat: una minoranza “eletta” da se stessa, che disdegna il popolo, la sua sovranità politica, le sue rappresentanze, quando hanno un’appartenenza che non è la loro, segnatamente se sono espresse dalla destra. Ma è un’antistorica aristocrazia che non ha appeal sui ceti medi, sulla borghesia produttiva; ha difficoltà ad essere maggioranza nelle città medie, nei Comuni minori, nelle zone interne e rurali, in molte periferie urbane e sociali, persino nella stessa working class. In una parola in aree e “basi” che in Italia sono prevalenti, come le ultime elezioni politiche hanno sancito. Il Festival di Sanremo è stato l’emblema di questo spaccato e del “potere” che è capace di sprigionare, fino a condizionare la politica estera di un esecutivo legittimo: il veto all’invito di Zelensky – insieme agli eccessi “partigiani” inscenati sul palco da alcuni artisti – riassume il senso di questa “potenza”, per dirla con Pareto. Ora, non si può chiedere di imparare a stare a tavola, a usare le posate secondo un galateo unilaterale, spacciandolo per universale; perché tale non è. 

La destra conosce i canoni di democrazia e civiltà politica 

La destra credo che da decenni sappia stare ai tavoli delle istituzioni e della civiltà politica, servendosi di “posate” non d’argento fine, come quelle esposte dall’intellighenzia radical-chic; ma comuni, “pop” o, se volete, da “very normal people”, come una nota emittente definisce il suo pubblico: lo stesso “servito” di masse che vivono fuori dalla cittadelle pretenziose della cultura di sinistra, spesso post-comunista, per dirla proprio tutta.

Meloni padroneggia meglio di Schlein il “canone Westminster”

Lo si é visto, peraltro, nel recente question time alla Camera che ha visto la premier Meloni rispondere con perfetta padronanza del canone Westminster alla leader del Pd Elly Schlein, in verità non del tutto a suo agio nell’inedito ruolo di guida della principale opposizione. Personalmente credo, invece, siano reali e realistici gli “handicap comunicativi”, dopo soli cinque mesi di governo; ma non credo affatto dipendano dalla “scarsa frequentazione degli ambienti dove prende forma il discorso pubblico, dove si stabilisce ciò che si può dire e che invece non sta bene dire” o persino – sempre secondo Galli della Loggia – dove  “si apprende il modo stesso di stare nei ruoli pubblici”. Mi permetterà il Prof di aggiungere due ulteriori osservazioni. 

La “guerra delle parole”, dai ragazzi del ciclostile a Giorgia 

La prima é che ai “ragazzi del ciclostile” cresciuti nelle sezioni missine e alle generazioni politiche successive fino alla stessa Giorgia Meloni, una delle prime lezioni che veniva impartita era quella dell’importanza della “guerra delle parole”, che ieri chiamavamo propaganda o contro-informazione e che oggi si definisce comunicazione.  Come dire, la destra politica vanta un’antropologia “vaccinata” contro il sistema logico-espressivo della sinistra; difficile possa quindi accedere all’alfabeto della Cosa Nemica, accettarla e men che meno adeguarvisi. Teniamone conto. I lemmi  utilizzati da Giorgia Meloni e le sue scelte dialogiche innovative, introdotte anche nei discorsi ufficiali, ci dicono che quella “lezione” è stata acquisita ed é sempre viva. Prendete la decisione della premier di parlare dell’Italia come Nazione o Patria e non come Paese

Nazione e Patria, parole della Costituzione 

É scelta che appartiene a questa “storia” della destra, ma al contempo non fuoriesce dai doveri costituzionali. “Nazione” é parola della nostra Carta (articoli 9,67, e 97) e i membri del governo giurano di fronte al presidente della Repubblica, “nell’interesse esclusivo della Nazione”; lo é pure “Patria” (articoli 52 e 59: Galli ha scritto La morte della Patria). Eppure, per troppi anni, tali termini sono stati espulsi dal vocabolario politico e anche “culturale” corrente. Perché ? Perché non rientravano in quella “lingua” di cui scrive Galli. 

Le “parole mute” del pensiero conservatore 

Aggiungo un’ ultima notazione attinente al pensiero conservatore: da sempre, in questo filone di cultura right conta molto la “parola non detta” che passa attraverso simboli,  ritualità, culti, ripetizioni di gesti “muti”; la ritroviamo nella psico-sfera di una destra intellettuale, non dominante, spesso dispersa in una diaspora tipica di quel mondo; ma che esiste e in una stagione di governo politico – il nuovo ministro della Cultura Sangiuliano secondo me ci sta provando – potrebbe tentare di affermare una sua “egemonia” (nozione che Gramsci copiò da Romain Rolland, Nobel deluso da Stalin e Molotov, tanto per rimettere un primato al suo posto). Ma che vive anche nella mentalità popolare di una destra “diffusa”, legata a tradizioni e devozioni, ingenua e talvolta non del tutto inconsapevole di esserlo, ma stratificata e davvero lontanissima dal parlare “corretto” e “conforme”. Ecco. Tutto qua. Spero davvero basti, se non a dare una cortese risposta al professor Galli, almeno a fornire un polo alternativo alle sue ragionate argomentazioni. 

Ps: professore, non giurerei sulla bontà del suo consiglio alla presidente Meloni di non mettersi “a tu per tu” con i giornalisti o con taluni di essi: il problema é che la premier, che appartiene allo stesso albo professionale (pure mio), li considera “colleghi”. Anche quelli che nel cuore – talvolta anche in redazione – hanno ancora i poster di Mao e del “Che”. Quella volta che fece come dice lei, a causa di tempi ridotti dovuti a incombenze istituzionali, fu inondata da feroci critiche per asserita compressione della libertà di stampa. Veda lei. 

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