Il potere e i suoi orrori nella pièce di Mishima a Bologna. Piace l’allestimento di Adriatico
Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Non solo le opere di Yukio Mishima, ma, più in generale, l’intero teatro giapponese, anche quello moderno – sia che tragga le origini direttamente dal No o dal più semplificato Kabuki – non è per tutti. L’essenzialità delle scene e l’ampio spazio dato alla parola – che si esprime in un linguaggio sottile e serrato, in dialoghi che apparentemente non hanno molto, se non nulla di poetico e di lirico – per lo spettatore, non è sempre facile afferrare l’essenzialità dei contenuti. Poi, se a complicare il tutto interviene anche il titolo, il rischio di assistere a uno spettacolo banale, travisato e, in questo caso, magari insopportabilmente “corretto politicamente” è altissimo. Il caso, ovviamente, è quello de “Il mio amico Hitler”, portato sulle scene in questi giorni da Andrea Adriatico e che ha raccolto già un ampio consenso di critica e di pubblico con la “prima” e con le prime repliche “Teatri di Vita” di Bologna.
“Il mio amico Hitler” di Mishima
L’opera, pensata dal grande scrittore giapponese come un complemento di “Madame de Sade”, non si presta, per il tema trattato, al riempimento della scena con vestiti ricchi ed eleganti del Settecento, per cui è lo stesso Mishima a sperare – raccomandandosi ai registi – che , conscio, però, come questo sia . Ecco, allora, in cosa principalmente ha dovuto misurarsi Adriatico: nel casting, nella ricerca di quattro interpreti in grado non solo di mandare a memoria e recitare i lunghi monologhi e i serrati dialoghi tra il “cancelliere” neo eletto, Rohm, Strasser e Krupp, ma anche di renderli – con le movenze del corpo – credibili e naturali agli occhi di chi guarda, come che assista a un documentario sulla “Notte dei lunghi coltelli”, e, allo stesso tempo profondamente psicologici, tali da restituire pienamente le emozioni, i sentimenti e le malizie di cui ciascuna figura è archetipo.
Per di più, aiutandoli a calcare la scena col solo aiuto di un velo di cerone colorato sul viso: bianco e nero, come i pezzi opposti della stessa scacchiera, sui volti di Hitler e Krupp; verde, a colorare una metà speculare delle facce di Rohm e Strasser. E Adriatico, ma non è una novità, è stato superbo nella scelta di un quartetto – Gianluca Eria (Hitler), Francesco Baldi (Rohm), Giovanni Cordi (Strasser) e Antonio De Nitto (Krupp) – capace di restare fedele al testo, proposto in versione praticamente integrale, senza tagli del benché minimo rilievo, e di muoversi agilmente in una scenografia che, in alcune parti, invece, è molto dissimile da quella immaginata da Mishima – a partire dal secondo e terzo atto ambientati ai bordi di una piscina -, ma perfettamente attagliata al tema.
Suggestiva intuizione musicale
Un effetto significativo, nell’economia complessiva dello spettacolo, lo produce anche la scelta delle musiche Alternative-rock, dalle sonorità Punk e Glam, dei “Placebo”, gruppo che, se piacque a David Bowie già al suo esordio nei primi anni ‘90, tanto da sceglierlo come band di supporto nel tour “Outside tour”, non sarebbe certo dispiaciuto al drammaturgo di Tokio. Due, infine, i nodi della trama che avvinghiano principalmente lo spettatore: da una parte, il sottile, complicato filo tra amicizia e ambizione al potere, che è anche un confine, però, un limite tale da portare fino alla disperazione; dall’altra, la riflessione sulla violenza e la potenza delle spinte degli uomini e della cariche rivoluzionarie della storia, che sconfinano nel cinismo e finanche nell’orrore. Ed è specialmente questo secondo tema di riflessione che rende ancor più attuale e raccomandabili al pubblico la visione di questo spettacolo magnificamente allestito e diretto da Adriatico: poiché l’Hitler di Mishima non è necessariamente quello storico, ma il e non meno fosco appare oggi il XXI, con le spregiudicate e ipocrite manifestazioni di “buoni sentimenti” che tornano a offrire al mondo, come recita il Krupp, “un mazzo di fiori finti, di acciaio”.