Boris Johnson ammette di aver ingannato il Parlamento sul partygate: “Ma ero in buona fede”
Sostiene di essere stato “in buona fede” l’ex-premier britannico Boris Johnson quando violò il lockdown imposto durante il periodo in cui infuriava la pandemia da Covid-19 partecipando ad un party.
E Boris Johnson aggiunge che era in buona fede anche quando rilasciò dichiarazioni alla Camera dei Comuni, dichiarazioni che “non si sono rivelate corrette”, ma sostiene che ha poi corretto il verbale “alla prima occasione”.
Nella sua testimonianza al Comitato dei privilegi, l’ex-inquilino di Downing Street ricorda che l’unica prova che abbia intenzionalmente ingannato la Camera dei Comuni è venuta dallo “screditato Dominic Cummings” e che le affermazioni del suo ex-aiutante non sono “supportate da alcuna documentazione”.
Ex-stratega e direttore della campagna elettorale a favore della Brexit e, poi, consulente senior di Johnson dal 24 luglio 2019 al 13 novembre 2020, anche Cummings durante la pandemia è inciampato sulle violazioni del lockdown e fu difeso proprio dall’allora premier.
Insomma, ha sostenuto Johnson, “non esiste un singolo documento che indichi che abbia ricevuto avvisi o consigli sulla possibile violazione di regole o indicazioni”.
Inoltre l’ex-primo ministro britannico ha accusato il “Comitato dei privilegi” di essere andato “notevolmente oltre i suoi termini di riferimento” con la sua indagine per .
“È senza precedenti e assurdo”, ha detto Johnson, affermare che fosse “in qualche modo avventato” fare affidamento sulle garanzie fornite dai “consiglieri fidati”.