Il racconto di Oleg del battaglione Azov: i russi ci dissero “è stato un onore combattere con voi”
“Sono in arrivo dalla Germania, oggi vedrò la mia famiglia per la prima volta dopo mesi. E mi scuserò con loro”. A parlare al Corriere della Sera è Oleg, 30 anni, marine ucraino, rilasciato, grazie a un maxi scambio di prigionieri, insieme ai suoi compagni del battaglione Azov. Protagonista della estrema difesa dell’acciaieria Azovstal di Mariupol fino alla resa e alla consegna ai russi.
Il racconto di Oleg, marine del battaglione Azov
Il giovane marine, sul fronte dal 2014, sente di doversi innanzitutto scusarsi con i familiari che hanno passato “un inferno peggiore del mio”. Poi racconta la sua odissea e di essere stato ferito durante l’assedio di Mariupol. “Stavamo evacuando dei feriti. I russi ci stavano facendo passare senza spararci addosso. Poi uno di loro ha disobbedito agli ordini del suo comandante e ha iniziato a tirarci contro. Io chiudevo il corteo in auto e mi sono salvato per miracolo”.
Non volevamo arrenderci, ma abbiamo ubbidito
“Non volevamo arrenderci – racconta ancora il marine che è seguito da un team di psicologi per riuscire a tornare alla normalità. “Ma il comandante Volyna è venuto di persona a leggerci la lettera con gli ordini. E così abbiamo iniziato a prepararci. La prima regola di ingaggio era: armi dietro la schiena e smontate. Altrimenti i cecchini appostati ci avrebbero sparato. Poi, niente manette o mani alzate. Siamo usciti camminando normalmente”.
I russi: è stato un onore combattere con voi
Ma c’è un momento indimenticabile nella memoria del soldato ucraino. Colpito dall’atteggiamento dei soldati russi. Uno dei comandanti delle forze speciali ha reso allo storico battaglione Azov l’onore della armi per il coraggio dimostrato. “Ci ha detto ‘è stato un onore combattere con voi’. In segno di rispetto. Si vedeva che molti non avrebbero voluto essere lì”.
Temevo di non tornare mai più a casa
Dopo il rilascio un lungo peregrinare con la paura di non farcela. “Prima siamo stati portati a Gomel in Bielorussia in aereo, poi in autobus per quattro ore fino al confine con l’Ucraina. Eravamo bendati e con le mani legate. Ricordo di aver pensato che non sarei mai più tornato a casa. Ero il primo della fila e ho sentito qualcuno che mi tagliava le fascette di plastica e mi scopriva gli occhi. La prima cosa che ho visto è stata la scritta Ukraine sulla felpa di chi mi stava liberando”.