Orsina: «L’atteggiamento di scherno della sinistra nei confronti dei conservatori è un errore»

8 Set 2022 10:20 - di Annamaria Gravino
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Presentato con un titolo che sembra affossarla, La Stampa offre oggi un articolo firmato dal politologo Giovanni Orsina che in realtà spiega con un’analisi approfondita e puntuale perché la scommessa di una via italiana al conservatorismo, portata avanti da Giorgia Meloni, può forse risultare «impossibile», ma è certamente «indispensabile» e ha la chance di condizionare, in un senso più vicino ai cittadini, non solo la politica nostrana, ma anche quella europea.

L’analisi di Orsina su conservatorismo e progressismo

Il titolo dell’articolo è «Giorgia e quel conservatorismo che fa presa sugli elettori disperati». Se ne ricava l’impressione di un ragionamento demolitorio, quando invece l’analisi di Orsina finisce per demolire tutti i tic della «tarda modernità» che trovano nei progressisti i loro campioni e nel conservatorismo la possibilità di un antidoto. Orsina parte da una due domande: «Cosa vuol dire, nel ventunesimo secolo, essere conservatori? E quale impatto potrebbe avere questa eventuale novità italiana sul quadro politico europeo?». La risposta arriva nel dispiegarsi si una lunga disanima, che assume che il conservatorismo è «al contempo impossibile e indispensabile». «È impossibile perché la tarda modernità, col suo relativismo radicale, ha decostruito gli apriori sui quali deve fondarsi un pensiero conservatore», ancorato a principi non negoziabili, che possono essere di carattere religioso (Dio), storico (Patria) e naturale (Famiglia), svincolati gli uni dagli altri o tutti insieme nella famosa triade.

L’ingiustificato «atteggiamento di scherno» del progressismo

In una «tarda modernità» che «corrode irrimediabilmente ogni principio o visione del mondo», è dunque l’interrogativo, quale spazio possono avere questi valori? L’idea che per essi non vi sia più spazio è ciò che, per Orsina, sta alla base dell’«atteggiamento quasi di scherno che il progressismo, non per caso egemone nel mondo della cultura, riserva ai conservatori, accusati in buona sostanza di voler portare l’acqua col colabrodo. Da qui la sensazione che siano irrimediabilmente superati dalla storia». A questo punto Orsina avverte che «ammesso pure che lo sia da un punto di vista filosofico, tuttavia, l’arroganza della tarda modernità non è fondata né socialmente né politicamente. Per la semplice ragione che il suo universo “liquido”, privo di ancoraggi religiosi, storici o naturali e affaccendato in una metamorfosi perpetua, appare invivibile a una gran parte degli esseri umani».

I motivi per cui il conservatorismo è «indispensabile»

«È qui – chiarisce il professore – che il conservatorismo diviene indispensabile: là dove restituisce, sebbene in una forma assai precaria e provvisoria, qualche fragile punto di riferimento a individui disorientati e spaventati; là dove cerca di rallentare, quanto meno, il ritmo forsennato della metamorfosi perenne. Troppo spesso prigionieri dei propri schemi astratti, oltre che dei loro begli appartamenti nei centri storici delle metropoli, gli intellettuali progressisti si chiedono stupefatti come possano gli elettori dimostrarsi inconsapevoli a tal punto da comprarsi alle urne una famiglia naturale che naturale non è, o una patria costruita a tavolino. E mentre deridono la pagliuzza dell’inconsapevolezza altrui, non si rendono conto della propria trave».

La scommessa di Giorgia Meloni su un conservatorismo italiano

Orsina quindi passa ad analizzare nello specifico il conservatorismo proposto da Giorgia Meloni, che mette al centro, «prima ancora che Dio e la famiglia, la patria». Per il professore «qui si pone una questione ulteriore» rispetto all’impianto europeo, che è tutto costruito per superare i confini patrii. Ma è una questione aperta. Perché, calata la tensione verso Dio e la famiglia, che avevano rappresentato le stelle polari del popolarismo che ha dato forma all’Europa unita, non resta che la patria. Così «il ritorno della nazione» da un lato è la «conseguenza del lento appassire del popolarismo europeo», che non ha saputo frenare «il rullo compressore della tarda modernità», e dall’altro rappresenta una risposta alle inquietudini dell’oggi.

«Gli elettori seguono chi li ascolta. La patria? Non si può cancellare»

«Esposti senza più difese all’invivibilità della metamorfosi perpetua, nella loro disperazione gli elettori hanno preso a seguire leader e partiti che davano almeno ascolto alle loro angosce. E che, con un termine quanto mai impreciso, abbiamo chiamato “populisti”», ha sottolineato Orsina. Si tratta di un ragionamento che di fatto sancisce l’impossibilità del progressismo di dare risposte a quella “disperazione”, di cui a bene vedere è stato invece motore e moltiplicatore. È stato, dunque, in questo processo che i tanto vituperati populismi, tra i quali «sono emersi quelli più coerenti e strutturati. I quali, altrettanto inevitabilmente, sono andati a ripescare la patria. Che sarà anche una comunità immaginata distrutta dalla catastrofe del 1945, ma – ha avvertito il professore – rimane pur sempre una presenza storica plurisecolare, profondamente radicata nella psiche collettiva e assai difficile da sostituire».

Una partita aperta in seno all’Europa

Dunque, per Orsina, il ritorno del conservatorismo, specie in Italia, è «un’operazione tutt’altro che banale» e ciò che resta da capire è come riuscirà a strutturarsi, sia in relazione ai populismi, «dei quali capisce e condivide la rabbia, ma non necessariamente le ricette e il dadaismo» sia in relazione ai popolari, con i quali condivide il richiamo a Dio e famiglia, sia infine in relazione all’impianto europeo, «che è sì potentemente attraversato dagli interessi nazionali, ma che resta in piedi grazie alla loro idealistica, e al contempo ipocrita, rimozione».

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