Oscar Giannino: «”Melonomics” da paura». Ma l’intellettuale sbaglia: Giorgia non è un’autarchica
Brrrr, che paura. Una Giorgia da brividi: un po’ per se stessa e un po’ per i suoi alleati, insieme ai quali forma un trio di autentici impresentabili. “Niente di personale, anzi…” mette le mani avanti Oscar Giannino, autore di una letterona sul Foglio occupata in gran parte da una conversazione intrattenuta con Giovan Battista Fazzolari, il senatore incaricato dalla Meloni di curare il programma per Fratelli d’Italia. Il filo conduttore – manco a dirlo – è l’economia. Meglio: le idee, le tesi e le soluzioni di FdI (e del centrodestra) per l’economia, insomma la Melonomics, come l’ha definita la Stampa qualche giorno fa. Che poi, alla luce della cogenza del vincolo esterno e della fragilità dei nostri conti pubblici, è lo stesso che dire il programma per l’Europa (Ue+Bce). L’interrogativo di fondo è quello di rito quando la coalizione alternativa alla sinistra è in predicato di vincere le elezioni e di aggiudicarsi il governo: possiamo fidarci?
Giannino: «Da Salvini e Cav promesse scassa conti»
Pur senza scadere nella faziosità di tanti suoi colleghi, anche Giannino sembra propendere per il “no” anziché per il “sì“. Soprattutto, dice, per le «promesse scassa-conti» di Salvini e Berlusconi: bonus e pensioni a mille euro. A nulla è servito l’invito di Fazzolari a distinguere le dichiarazioni dei primi giorni di campagna elettorale alle misure contenute nel programma post-voto di governo. Ma, si sa, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. E allora avanti con il pregiudizio e la diffidenza dispensate a piene mani. Il valico decisivo resta quello della sovranità nazionale con annesso il suo riflesso obeso sovranista. «Il problema – scrive infatti Giannino – è che FdI è ancora attestato sull’idea di una confederazione di Stati». Un problema che, a suo dire, si traduce in una indisponibilità a cedere ulteriori quote si sovranità a Bruxelles.
«In FdI nostalgie da Stato etico»
E qui scatta il richiamo al «primo rischio» (il secondo sono «i compagni di strada», appunto Berlusconi, Salvini e persino Tremonti). Eccolo: «Di fascisti dichiarati (in FdI, ndr) ce n’è ancora (…). Sono persone che in testa non hanno certo mercato, concorrenza e occidente, ma riflessi condizionati di autarchia, stato etico nazionalizzatore, e una mistica di Eurasia anti occidentale e antiamericana e anticapitalista che assomiglia più a quella del Dugin caro a Putin che alle trumpate circensi di Bannon». Mah, il problema degli intellettuali è che ragionano per etichette e definizioni quando invece il mondo reale è un fluire incessante e mutevole. Vale anche in economia, dove la necessità di adattare la teoria alla realtà è eventualità tutt’altro che remota. Ne fa fede proprio il fascismo. Come Giannino senz’altro saprà, il Mussolini del 1921 era un ultra-liberista («basta con lo Stato che fa il postino, il telegrafista, il maestro», arrivò a sostenere in uno dei suoi rari discorsi da deputato).
Le verità parziali di Giannino
Strano a credersi, ma quel parlamentare che tessé l’elogio del «capitano d’industria», una volta diventato capo del governo avrebbe fatto l’esatto contrario di quanto vagheggiato in quel discorso. Incoerenza? Può darsi. Ma anche necessità, in quel caso, di limitare i danni derivanti dal crollo di Wall Street del 1929. La stessa crisi che impose a Roosevelt di ricorrere all’intervento dello Stato nella patria del liberismo e della libera iniziativa. E quante analogie tra il suo New Deal e l’Iri di Alberto Beneduce. Per dire che non esiste una ricetta valida in ogni tempo e sotto qualsiasi latitudine. Un governante lo sa bene, e vi si adatta mal grè, bon gré. L’intellettuale lo sa altrettanto bene, ma non è disposto a rinunciare neppure a un’oncia delle proprie certezze. E l’ottimo Giannino non fa eccezione.