Tim, l’azienda non più italiana che è riuscita a scontentare sia il mercato sia i consumatori

4 Lug 2022 18:03 - di Redazione

Probabilmente oggi Tim è il contrario della Scavolini: non è l’azienda certo più amata dagli italiani… e il motivo è molto semplice. La sua politica aggressiva di gestore telefonico ha allontanato centinaia di migliaia di utenti, sia per il costo dei servizi, da molti ritenuto eccessivo, sia per i numerosi disservizi, anche gravi, che quotidianamente si verificano, sia perché non è facilissimo parlare con qualcuno quando si deve risolvere un problema, mentre al contrario, quando Tim deve proporre le sue mirabolanti e vantaggiose offerte nell’interesse dei consumatori, ovvio, non esita a bersagliarci di chiamate.

Purtroppo non è mai come ce la fanno apparire, e molti utenti insoddisfatti si stanno rivolgendo ad altri gestori, che per fortuna non mancano. La cosa grave, per un’azienda sedicente nazionale, è che non controlla neanche il mercato, ossia non è leader neanche in Italia. Al primo posto infatti troviamo l’inglese Vodafone, al secondo Tim, seguito da presso però da Iliad e da Windtre, che la tallonano da vicinissimo pronte e insidiargli il secondo posto.

Tim e la governance senza una strategia

La confusione delle scelte aziendali, delle fusioni, dei controlli, delle acquisizioni, delle cessioni, delle svariate e a volte costose operazioni finanziarie, ha certo contribuito non solo a ingenerare disorientamento negli italiani, ma una vera e propria avversione. Spesso è solo per pigrizia o per comodità se si rimane ancora attaccati alla Tim, o per la voce, perché è solo una voce, che la Tim prende meglio su tutto il territorio nazionale rispetto alle altre compagnie, cosa peraltro non sempre vera.

Le oramai lontane origini della Tim, come quasi tutto in questo Paese, risalgono ovviamente al fascismo: fu nel febbraio 1923 che il governo divise l’Italia, dal punto di vista telefonico, in cinque zone, gestite da cinque operatori differenti. Quella dell’Italia centrale e della Sardegna si chiamava Teti, e forse qualcuno se la ricorda. Bisognerà attendere 40 anni prima che tutte le concessionarie di riunissero della Sip, a opera dell’Iri. Sip stava per Società idroelettrica piemontese, come si chiamava nel 1899. Tutte le concessionarie telefoniche vennero poi cedute dall’Iri alla Stet, nel 1958. Negli anni che seguirono ci furono altre operazioni, tra cui cessioni di azioni, ristrutturazioni, crisi, etc. ma soprattutto ci fu l’innovazione tecnologica che avanzava e alle quale la Sip non poteva sottrarsi.

E a trent’anni dalla nascita di Sip, nel 1994 nacque Telecom Italia, conseguenza diretta della progressiva liberalizzazione del settore delle comunicazioni avviato negli Stati Uniti già negli anni Ottanta. L’anno dopo, nel 1995, nacque Telecom Italia Mobile, ossia Tim, che si lanciò nel mercato dei cellulari che si stavano imponendo e che nessuno aveva previsto.

La privatizzazione sbagliata di Telecom

Purtroppo, nel 1997, il governo Prodi attuò la privatizzazione di Telecom (per far entrare la lira nell’euro a tutti i costi), che comportò la sostanziale uscita del nostro ministero del Tesoro dall’azionariato. Il governo bocciò anche la proposta delle associazioni di far aderire all’azionariato i centomila dipendenti della società. E forse fu questo l’errore capitale. Si preferì invece cercare un gruppo ristretto di azionisti capaci di gestire la società anche con la minoranza delle azioni. Ma nessuno risultò essere in grado. Da quel momento e per gli anni successivi ci furono talmente tanti e tali cambiamenti che sarebbe davvero troppo lungo ricostruire. Tutto ciò porto nei primi anni Duemila a un indebitamento superiore a 40 miliardi di euro.

Nel 2005 Telecom lanciò un’Opa su Tim, che alla fine fu finanziata da una cordata di banche, la cui la principale fu Banca Intesa. Così, nel 2006, l’azienda decise per l’ennesima riorganizzazione e scorporò la società in quattro distinti settori: Telecom Italia, Telecom Italia Mobile, Telecom Italia Rete e Telecom Italia Net. Risparmiamo tutto ciò che successe in questi anni, tra dismissioni di patrimonio immobiliare, affitti a prezzi superiori a quelli di mercato, liquidazioni milionarie, critiche più o meno giustificate da tutte le parti, azioni al minimo storico, e così via. Poi, nel 2016, la francese Vivendi ottenne il 25 per cento delle azioni, divenendo così il maggior azionista della società. Infine, nel 2019 l’azienda fu rinominata Gruppo Tim. Oggi la struttura azionaria è così composta: Vivendi 23,75, Cassa depositi e prestiti 9,81, investitori istituzionali esteri 44,27, investitori istituzionali italiani 3,44, altri azionisti 17, 97 e infine Gruppo Telecom Italia 0,76. Insomma, come si può definire Tim un’azienda strategica italiana, e che quindi dovrebbe rispondere agli italiani, se lo Stato ne ha rinunciato al controllo?

Il futuro del Gruppo Tim si presenta quanto mai fosco: la sfida dei 5G, l’Antitrust, le complesse vicende societarie che non accennano a semplificarsi e  la contestazione sempre più dura dei sindacati.

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