Cercava la verità, non avrà giustizia: l’omicidio della giornalista Shireen Abu Akleh resterà impunito
Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Non volercene Shireen, le cose spesso finiscono così. Le cose spesso, poi, finiscono così. In un nulla di fatto. Dunque non ci sarà un colpevole per la morte della giornalista palestinese di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, raggiunta da un colpo di arma da fuoco l’11 maggio scorso mentre seguiva un’operazione dell’esercito israeliano nel campo di Jenin, nel nord della Cisgiordania. Il responsabile non sarà assicurato alla giustizia perché l’esame sul proiettile – effettuato dal Dipartimento di Stato americano – non ha avuto un esito certo.
Incredibile, ma vero. Altro che CSI, sofisticate attrezzature e scienziati forensi che scovano tracce e segni che solo nei telefilm americani, portano sempre ad un colpevole. Nella realtà dello scontro israelo-palestinese, un semplice proiettile non si riesce ad individuare la provenienza. A niente è valso il tentativo dell’autorità palestinese di affidare il proiettile a Washington per chiarire le tragiche circostanze del decesso della giornalista, che – quando è stata raggiunta mortalmente – era perfettamente riconoscibile. Abu Akleh indossava un giubbotto con la scritta ‘press’ e un elmetto. Per il Dipartimento di Stato americano Shireen Abu Akleh è stata colpita probabilmente da posizioni israeliane ma non c’è alcun motivo di credere che la sua uccisione sia stata intenzionale.
Nessuna certezza, nessun responsabile, dunque. “La Difesa è impegnata a scoprire la verità. In questo caso specifico, nonostante le indagini forensi, non è stato possibile giungere a una conclusione definitiva. Purtroppo non è possibile determinare da dove sia arrivato il colpo d’arma da fuoco e quindi le indagini continueranno” ha dichiarato Benny Gantz, ministro della Difesa israeliano. Insomma, il solito balletto delle parti, ma la verità non la si vuole trovare; perché è meglio così. Semplicemente perché attribuire in modo certo la responsabilità agli israeliani potrebbe innescare una nuova ondata di violenza da parte dei palestinesi, basata sulla dimostrazione plastica che gli israeliani sparano davvero su tutto e tutti, non curandosi neppure delle inequivocabili scritte “press” su gap ed elmetti. Tuttavia, se poi la responsabilità fosse proprio dei palestinesi, allora le conseguenze potrebbero essere persino peggiori, con ripercussioni interne alle forse di sicurezza palestinesi e con una reazione inevitabile anche da parte degli israeliani.
Ecco perché le cose spesso, poi, finiscono così. In un nulla di fatto. La giornalista palestinese-americana di Al-Jazeera Shireen Abu Akleh è stata uccisa l’11 maggio scorso e secondo quanto dichiarato formalmente dall’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, dalle parole dalla portavoce Ravina Shamdasani, “dal fuoco delle forze di difesa israeliane”. Dunque una conclusione ufficiale era stata già data. “Tutte le informazioni che abbiamo raccolto – anche dall’esercito israeliano e dal procuratore generale palestinese – confermano il fatto che gli spari che hanno ucciso Abu Akleh e ferito il suo collega Ali Sammoudi provenissero dalle forze di sicurezza israeliane e non da indiscriminati palestinesi armati come inizialmente affermato dalle autorità israeliane”, aveva detto Shamdasani in conferenza stampa a Ginevra.
“Non abbiamo trovato informazioni che suggeriscano che ci fosse stata una qualunque attività di palestinesi armati vicino ai giornalisti”, aveva aggiunto Shamdasani. Quando fu uccisa, la giornalista indossava il giubbotto antiproiettile e un elmetto e si trovava alla periferia del campo profughi di Jenin, roccaforte delle fazioni armate palestinesi dove le forze israeliane stavano effettuando un raid. Nello scontro a fuoco anche un altro giornalista palestinese, Ali Smoudi, venne colpito e ferito. “Avrebbero potuto sparare anche a me” affermò Shatha Hanaysha, una giornalista di Quds Network che aveva assistito all’omicidio. “Anche dopo che Abu Akleh era caduta, i soldati israeliani continuavano a sparare e nessuno di noi era in grado di raggiungerla. Alla fine un ragazzo è venuto a salvarci, ha aiutato me a uscire dal marasma e siamo riusciti a recuperare il corpo”.
Per la cronaca erano sette i giornalisti in totale quel giorno nel campo profughi di Jenin. Indossavano tutti l’equipaggiamento da giornalisti, con la scritta “press”, ed erano passati anche davanti all’esercito israeliano, cosi che i soldati potessero riconoscerli. Credo non ci sia altro da aggiungere se non l’amara conclusione che le cose spesso, poi, finiscono così. In un nulla di fatto.