Aborto, la sentenza Usa fa cadere un tabù. Ora tutto l’Occidente dovrà interrogarsi sul diritto alla vita

25 Giu 2022 15:02 - di Spartaco Pupo
aborto

“La Costituzione non dà il diritto all’aborto”. È quanto si legge nella tanto attesa sentenza con cui la Corte suprema degli Stati Uniti, superando la storica sentenza “Roe v. Wade”, che nel 1973 legalizzò l’aborto, conferisce piena libertà ai singoli Stati di legiferare autonomamente in materia di aborto. Ventisei sono gli Stati americani che aspettavano il via libera della Corte per agire di conseguenza, e di questi almeno tredici, in maggioranza del Sud e del Midwest, sono conservatori, pronti a dichiarare immediatamente illegale l’aborto.

Vacilla quello che fino a ieri era un vero e proprio totem del pensiero progressista: la libertà della donna di fare ciò che vuole del proprio corpo e della propria creatura. I giudici hanno dato ragione a Thomas Dobbs, il ministro della Salute del Mississippi che chiedeva che fosse restituito ai cittadini il diritto di legiferare a piacimento sulla delicata questione, e torto alle argomentazioni della Jackson Women’s Health Organization e, di riflesso, delle organizzazioni abortiste e femministe di tutto il mondo. Gli Stati Uniti, pertanto, vanno ad aggiungersi alle nazioni (Salvador, Nicaragua e Polonia) che hanno annullato il diritto all’aborto, ritenuto sin qui intoccabile in quanto “costituzionalmente acquisito”.

La sentenza, è bene chiarirlo, non entra nel merito dei predicati embriologici sulla legittimità, non solo bioetica, di considerare il feto come essere umano, “persona”, già dai primi istanti del concepimento, o come mera parte del corpo della madre. Essa non offre indicazioni su come e quando un legislatore può intervenire a protezione del bambino nel grembo materno. È vero, essa si limita a restituire potere ai singoli Stati, ma è indubbio che i giudici americani hanno ristabilito la validità del principio del “diritto” del bambino a vedersi protetta la vita sin dal suo concepimento. La sentenza, in altri termini, non pronuncia solo un giudizio legale, ma produce anche un importante atto di indirizzo politico circa il giusto “risentimento” del non nato nel vedersi privato della vita. Sì, perché nell’interesse legittimo dello Stato da oggi in poi rientra la conservazione della vita prenatale in tutte le fasi dello sviluppo.

Ciò indubbiamente segna la rinascita dello Stato nella sua dimensione più autenticamente conservatrice. Il conservatorismo, infatti, riacquisisce il suo significato più letterale: la difesa della “conservazione” delle “cose eterne” (permanent things le chiamano i conservatori americani), ad iniziare dalla vita. Il diritto naturale alla vita è un principio da sempre insito nella Costituzione americana. James Wilson, uno dei Padri fondatori degli Usa disse chiaramente che “nella contemplazione della legge, la vita inizia quando il bambino riesce per la prima volta a muoversi nel grembo materno” e che “per legge la vita va protetta non solo dalla distruzione immediata, ma da ogni grado di violenza effettiva”. Un paradigma, questo, che ora riprende forza, ridando linfa nuova al movimento conservatore, e non solo a quello americano.

Da sempre i conservatori di tutto il mondo difendono la posizione per cui il feto ha piena “personalità” sin dal concepimento e l’aborto è giustificabile solo in circostanze particolari, quando per esempio la gravidanza costituisce una minaccia per la vita della donna. Questi assunti, per i conservatori, devono riflettersi nella legge e nell’ordine pubblico. Ma è ingenuo ritenere che la sentenza americana trovi consensi solo tra i conservatori più tradizionalisti. Occorre ricordate che il movimento pro-life nacque come una campagna per i diritti umani ispirata ai principi del liberalismo, oltre che a quelli cattolici, poiché utilizzò il linguaggio dei diritti umani universali propri dell’ideologia liberale, decisivo per il suo successo politico. L’alleanza tra movimento pro-life e liberal fu rotta dalla crescente influenza nella società americana del movimento femminista sessantottino, che nel conflitto tra rivendicazioni di diritti anteponeva il diritto “riproduttivo” della donna al diritto alla vita del non nato.

Ora tutto torna in discussione, e non solo in termini di adesioni individuali o di gruppo alla libertà e al diritto alla vita. Questa sentenza, infatti, decreta un cambiamento strutturale nella democrazia liberale che va oltre gli schieramenti politici americani e investe, rinnovandola, l’intera vita politica occidentale.

*Professore universitario di Storia delle dottrine politiche 

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