Stroncatura di Aurelio Picca: su Pinocchio non ha capito nulla. Quel libro è Lo Hobbit degli italiani

28 Mar 2022 15:38 - di Riccardo Arbusti
Pinocchio Picca

Lo scrittore Aurelio Picca è un autore à la page. Da giovane scriveva solo per il Giornale di Montanelli e si occupava di narrativa grazie a un notevole talento nella scrittura. Ora è un intellettuale pienamente legittimato nel mainstream, la sua firma appare su Repubblica e sul Corriere della Sera, pubblica i suoi libri con Einaudi. E col suo ultimo saggio – Contro Pinocchio, Einaudi Stile Libero – va giù duro contro una delle icone dell’immaginario nazionale, il burattino creato a fine Ottocento da Carlo Lorenzini, in arte Collodi.

Pinocchio antipatico da sempre anche a Aurelio Picca bambino

Pinocchio, ammette Picca, gli è stato antipatico da sempre. Lo scorso anno poi lo ha letto attentamente e gli sarebbe piaciuto solo se fosse finito impiccato come appare alla fine della prima parte del romanzo. «Eppure amavo la legna, i pezzi di legno, i bastoni. Adoravo martello e chiodi. Ci volevo fare croci e spade. Epperò Pinocchio non mi ha mai chiamato. Lo leggo solo ora; e l’unica cosa che mi piace sta scritta alla fine della prima versione di Collodi (Pinocchio che resta un pezzo di legno; che non è sgravato nel futuro con la carne e il sangue dei bambini, dunque degli umani). Godo quando lui s’impicca. Un burattino che si impicca. Dovrebbe fare ridere. E farsi mandare “affanculo”. Invece la catramosa metafisica (ho sentito nei reticolati dei capillari) si squarcia nelle parole: Oh babbo mio! Se tu fossi qui! Ecco allora che l’impiccagione sembra una crocifissione».

Il suo libro preferito era Cuore

Solo un esercizio di provocazione utile a far discutere, come nell’”elogio di Franti” di Umberto Eco? Forse. Però c’è anche qualcosa di più… E la traccia ce la fornisce lo stesso Picca nel momento stesso in cui mentre demolisce Pinocchio esalta “Cuore” di Edmondo de Amicis, il vero libro che confessa di aver letto e apprezzato nella sua infanzia. La differenza tra i due libri è, a nostro avviso, la chiave di lettura della provocazione picchiana.

Pinocchio è il romanzo cristiano del ritorno al Padre

Cominciamo da Pinocchio. Come, negli anni, ci hanno spiegato, infatti, Attilio Mordini, il cardinale Giacomo Biffi e, da ultimo, lo scrittore Franco Nembrini, Pinocchio è – malgrado la formazione del suo autore – un romanzo cristiano, che – come sarà anche per l’opera di Tolkien – traspone la vicenda della salvezza evangelica in una storia fantastica. Nonostante Lorenzini fosse un mazziniano e un mangiapreti – come ci ha raccontato Piero Bargellini nel suo testo “Carlo Collodi e la verità di Pinocchio” – egli aveva tradotto in italiano le favole di Perrault e raccolto le leggende e i miti toscani per raccontarli in versi e in prosa. E qualcosa del linguaggio tradizionale della fiaba era stato assimilato e metabolizzato nel suo immaginario.

L’interpretazione di Attilio Mordini

Pinocchio, creatura legnosa, viene creato da un Padre, Geppetto, e dal suo creatore viene subito chiamato figlio. Ma il burattino fugge: “Pinocchio – ha scritto Attilio Mordini – fugge dalla casa di Geppetto come l’uomo sembra sfuggire a Dio… ma c’è di più, in Pinocchio è reso evidente soprattutto come l’uomo sfugge di volta in volta a sé stesso”. E proprio la fuga dal padre è vista come la fonte di tutte le sue sventure allo stesso modo in cui il ritorno al padre è l’ideale che sorregge la storia e costituisce l’approdo della lunga avventura sino alla raggiunta felicità e trasformazione spirituale.

Pinocchio attualizzava il mito e la fiaba

Vale il commento del compianto cardinale Giacomo Biffi, secondo cui Pinocchio “non ha espresso nessuna delle ideologie correnti. E sarà sempre una prevaricazione dare di Pinocchio delle spiegazioni ideologiche di qualunque tendenza e di qualunque colore, come di fatto sono state date: conservatorismo moralistico, liberalismo illuministico, pauperismo, marxismo, psicanalismo”.

No, Pinocchio attualizzava nel tardo Ottocento (e poi nel Novecento) italiano la verità tradizionale del mito e della fiaba tradizionale. “Pinocchio – concludeva Biffi – interiormente debole e ferito, esteriormente insidiato da intelligenze maligne più astute di lui, non può assolutamente raggiungere la salvezza da solo, interviene un aiuto superiore, che alla fine riesce a compiere il prodigio di riconciliarlo col padre, la salvezza è sempre donata dall’Alto e può guidare al lieto fine ogni tragedia della creatura ribelle”.

La storia di Pinocchio è simile a Lo Hobbit

La storia di Pinocchio, insomma, ha a che fare più con Lo Hobbit o con le favole tradizionali che con la letteratura pedagogica per ragazzi come il Cuore su cui si è formato Picca. Il romanzo di De Amicis non ha infatti nulla di fantastico o di simbolico e lo sfondo è monodimensionale, realistico, oltretutto di una realtà ideologicamente marcata. Non a caso, Vittorio Messori, anni fa, lo definì come “un manuale divulgativo” dell’ideologia laico-civile ottocentesca in cui non c’è traccia minima di cristianesimo: “Il processo di svuotamento e di sostituzione è completo: non vi è alcun cenno, in Cuore, al Natale, alla Pasqua o ad alcuna ricorrenza cristiana… Le antiche feste cristiane sono sostituite da quelle civili; il Vangelo dallo Statuto e dai Codici… gli ordini religiosi dall’Esercito”. Pare che l’ormai vecchio don Bosco, letto Cuore, abbia esclamato: “Bello! Peccato proprio che non funzioni. Come ci si può dire fratelli e comportarsi di conseguenza, sempre, senza riconoscere un Padre comune?”.

Pinocchio come Don Chisciotte

Picca, ovviamente, è refrattario a questa dimensione. Per cui secondo lui in Pinocchio prevale solo la retorica, l’idea per lui stucchevole del ragazzo salvato e redento. Prevale, insomma, nel suo approccio il rifiuto pregiudiziale del senso tradizionale del mito e della fiaba. Una lettura diversa, anche se non di natura spiritualista, ce la forniva, invece, Ludovico Incisa di Camerana, nel 2004, con il suo Pinocchio, pubblicato nella collana L’identità italiana delle edizioni il Mulino. Qua Pinocchio era invece visto come il romanzo di formazione per eccellenza dell’Ottocento italiano. E veniva collegato a libri come l’Odissea (anche qui, alla fine, si torna a casa), Don Chisciotte e, stando alla letteratura per ragazzi, a Huckleberry Finn e Tom Sawyer. Romanzo di formazione, avventura spirituale, il mito eterno dell’andata e ritorno. Ma oggi va di moda il contrario, un’idea di letteratura senza possibilità di identificazione e di catarsi formativa. Ennesimo segno dei tempi.

Riccardo Arbusti

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