La voce degli dei (o la voce dei demoni). Il basso-profondo nella storia dell’opera

31 Gen 2022 12:08 - di Rocco Familiari
la voce degli dei

E’ appena uscito, per i tipi di Città del Sole – edizioni, un volume dedicato alla “Vita e arte del famoso basso calabrese” (così il sottotitolo) Domenico Romeo Morisani, nato nel 1900, attivo per un quarantennio, dal debutto nel 1923 fino al 1962. La puntuale ricostruzione della prestigiosa carriera – ha cantato nei più grandi teatri del mondo accanto a star del mondo della lirica fra cui la Callas – è stata fatta da due valenti studiosi, Carmelo Neri e Arrigo Valesio, il nipote, il nobile Antonino Lazzarino De Lorenzo, oltre a mettere a disposizione dei curatori il materiale documentario, ha voluto ricordarne la figura umana in una commovente testimonianza, mentre Luca Verdone ha scritto una sentita presentazione. La prefazione, che riceviamo e volentieri pubblichiamo, è invece di Rocco Familiari.

Non ricordo chi disse (con tutta probabilità, Arbasino, noto melomane, capace di seguire fino in capo al mondo i suoi cantanti o direttori prediletti, e ancor più noto autore di dissacranti boutade) che le opere liriche sono tutte uguali: c’è un tenore, quasi sempre un innocente perseguitato, innamorato di un soprano, quasi sempre pulzella (spesso, però, anche cocotte), ma il loro rapporto è osteggiato da un baritono, che quasi sempre ha la meglio, visto che la grande tradizione lirica è prevalentemente romantica, e perciò gli amori sono destinati a finir male… Esempio tipico: Tosca dove il tenore, Mario Cavaradossi, pittore, ama il soprano, Tosca, celebre attrice, bramata però dal truce baritono, Scarpia, Governatore di Roma. Risultato? Due morti ammazzati (Cavaradossi fucilato, Scarpia accoltellato da Tosca), e un suicidio (Tosca, giù da Castel Sant’Angelo).

E il basso?

Sta sopra, o sotto. O di lato. Nel senso che generalmente ricopre ruoli di Divinità suprema: Wotan nella Tetralogia wagneriana; o di Sommo Sacerdote: il… Sommo per eccellenza di tutta la storia dell’Opera, Sarastro nella mozartiana Die Zauberflöte; o di Demonio, e anche in questo caso non c’è partita: Mefistofele, declinato alla francese, ne La damnation de Faust di Berlioz e nel Faust di Gounod, o all’italiana, nel Mefistofele di Arrigo Boito (dove il protagonista, come si usa dire nel gergo teatrale, è addirittura “coricato” nel titolo); oppure di inquietante o divertente comprimario, a seconda dei contesti. Esempio insuperato del primo tipo: il Commendatore nel Don Giovanni di Mozart; per il secondo, invece: il Barone Ochs di Lerchenau del Rosenkavalier di Richard Strauss; e poi i vari Don Basilio, Don Bartolo, e così via.

E’ meno frequente che vengano affidati ruoli primari, non “estremi”, al basso, soprattutto al basso-profondo. Mi riferisco a quello capace di spingere l’estensione vocale (di norma fra il Fa grave e il Fa acuto) fino al Re grave (Caronte, nell’Orfeo di Monteverdi, o Seneca, ne L’Incoronazione di Poppea, dello stesso compositore), al Do grave (i già ricordati Sarastro e Ochs, o  Nettuno, ne Il ritorno di Ulisse in patria, ancora di Monteverdi), o al Mi bemolle grave (non in un’opera, ma ne Le ultime sette parole di Cristo di Haydn), o infine al La acuto del mitico basso a disposizione di Mozart, Iohann Ignaz Ludwig Fischer, per il quale l’enfant prodige salisburghese scrisse l’aria di Sarastro e quella di Osmin del Ratto dal serraglio. Una piccola nota: Mozart, o era fortunato, o aveva un notevole intuito da talent scout; a parte Fischer, anche le due cognate, sia la più celebre Aloysia Weber, sia Josefa Weber Hofer, erano entrambe eccezionali soprani di coloratura, ed è grazie alle doti della seconda che abbiamo gli acuti siderali dell’astrifiammante Regina della notte.

In un “girone” a parte si collocano i leggendari “ottavisti” (in tedesco Strohlbass), della liturgia cristiano-ortodossa, veri contrabbassi umani, capaci di sprofondare fino al La o Sol ultragravi

Ma vi sono delle eccezioni, rare e perciò ancora più interessanti. Due per tutte: il Boris Godunov di Modesto Mussorgskij, cavallo di battaglia del più celebre basso di fine ottocento, Fedor Saliapin, e del nostro Rossi-Lemeni, e, nel Novecento, il Moses und Aaron di Schönberg, in cui il conflitto fra i due fratelli è messo in risalto dal diverso colore delle voci, di basso, appunto, quella di Moses, e di tenore invece quella di Aaron.

Il repertorio è vastissimo. In ogni opera che si rispetti ci sono almeno uno o due bassi, delle varie tipologie: il basso buffo o leggero, dotato di una voce agile e anche più chiara, il basso-baritono, voce…“bastarda”, ma non per questo meno bella, anzi, per certi versi, la sottospecie più duttile e brillante (vedi il nostro Ruggero Raimondi, eternato nel film di Losey dedicato al capolavoro mozartiano, o Samuel Ramey, sempre nel ruolo del mitico burlador), il basso-cantante, quella più diffusa, dal colore scuro, ma con una tessitura più acuta rispetto all’ultimo, il basso-profondo, il quale, pur mantenendo lo stesso valore nell’acuto, deve saper scendere almeno fino al Do grave. In qualche opera ve ne sono addirittura anche tre, come nel Don Carlos di Verdi, in cui il compositore sfruttò le diverse estensioni vocali del registro di basso per caratterizzare i  personaggi principali, Don Carlo, il re Filippo II e Il Grande Inquisitore, per il quale è richiesto appunto un basso molto, ma molto profondo… (celebre il suo il Mi grave). Ed è un ruolo, questo del Grande Inquisitore, che anche Morisani interpretò con grande bravura.

Il repertorio è reso ancor più vasto per il fatto che spesso viene utilizzato un basso, e addirittura un basso-profondo, per ruoli da baritono o al massimo da basso-baritono, se si vogliono mettere in evidenza, di un determinato personaggio, caratteristiche particolarmente drammatiche. E’ il caso del Don Giovanni mozartiano, in cui a rigore è previsto un solo basso-profondo (per il ruolo del Commendatore), ma spesso, soprattutto in presenza di cantanti di notevole carisma, e di direttori amanti delle tinte cupe, sia il ruolo principale, sia quello del suo servo, Leporello (che dovrebbe essere un baritono brillante), vengono interpretati anche, e con esiti straordinari, da bassi e perfino bassi-profondi. Si devono a bassi italiani le interpretazioni più famose del Don Giovanni, da Ezio Pinza a Cesare Siepi, a Nicola Rossi-Lemeni. Ai giorni nostri, invece, il ruolo del grande seduttore è stato interpretato dal più bel basso forse della storia della lirica, l’uruguaiano Erwin Schrott.

Delle opere moderne, nella più famosa e giustamente onnipresente sulle scene di tutto il mondo, il Wozzeck di Berg, il ruolo principale è per baritono, ma c’è almeno una mirabile eccezione. Dopo la prima italiana dell’opera, diretta da Tullio Serafin al Regio Teatro  dell’Opera Roma, nel 1942, con il superbo Tito Gobbi (idolo, come ricorda sempre Arbasino, delle “damazze” milanesi), subito eliminata dal cartellone per disposizione del governo fascista, nella stagione ’63/’64 fu ripresa, sempre all’Opera di Roma, direttore questa volta Previtali (invariate invece regia, Milloss, e scene e costumi, Pekary), con il basso Nicola Rossi-Lemeni.

Nella seconda opera di Berg, l’incompiuta Lulu, il ruolo principale, femminile, è di un soprano drammatico, mentre quello del personaggio maschile più importante, il Dr. Schön, è affidato a un baritono drammatico o a un basso. Celebre l’interpretazione di Franz Mazura, un basso-baritono, nel 1980, con Levine, al Metropolitan, per ben 175 repliche!

Oltre a quelli già ricordati, la storia dell’Opera annovera una serie notevole di ruoli, principali o secondari, tutti comunque di notevole impegno, scritti per la voce di basso. Cito a caso: Jokanaan nella Salome di Richard Strauss (di quest’opera, nel 1939, Morisani interpretò il Primo Nazareno), Rocco e Pizarro nel Fidelio di Beethoven, i wagneriani Günther nel Götterdammerung, Biterolf nel Tannhäuser (ruolo interpretato più volte anche da Morisani), Alberico, nel Rheingold, sempre nella stessa opera Fafner e Fasolt, i due giganti costruttori del Walhalla, a cui il dio Wotan non volle dare la ricompensa promessa, la bella Freia, che essi tennero in ostaggio fino a quando non fu pagato il riscatto, l’Oro del Reno appunto, sottratto con l’inganno ad Alberico (anche i due ruoli di Fafner e Fasolt figuravano nel repertorio di Morisani); Gurnemanz e Klingsor nel Parsifal, Re Marke nel Tristan und Isolde (pure questo personaggio fu interpretato spesso da Morisani), Timur nella Turandot e Ramfis nell’Aida (entrambi nel carnet del basso calabrese); Banco nel verdiano Macbeth, Escamillo nella Carmen, Mosè nel Mosè in Egitto di Rossini, Don Bartolo e Don Basilio nel Barbiere di Siviglia, il Conte Rodolfo nella Sonnambula di Bellini, Dulcamara nell’Elisir d’amore di Donizetti, Attila nell’omonima opera di Verdi, Fiesco nel Simon Boccanegra, Sparafucile nel Rigoletto (un altro dei ruoli preferiti dal nostro).

Lunga anche la lista dei bassi illustri che nel Novecento hanno calcato i palcoscenici dei teatri lirici di tutto il mondo, alcuni dei quali hanno fatto davvero la storia dell’Opera. Fra gli stranieri (non considerando Saliapin), forse il più grande di tutti in assoluto è stato il finlandese Martti Talvela, dal fisico imponente (era alto quasi due metri) e dalla voce sontuosa. Le caratteristiche vocali pretendono infatti un fisico… extra large, essendo necessaria una grande capacità polmonare, ragion per cui la maggior parte dei bassi sono slavi, russi prima di tutto, naturalmente con le debite eccezioni (Robert Lloyd, ad esempio, non è slavo ed è piuttosto mingherlino, e anche il nostro Ezio Pinza non aveva un fisico da lottatore di Sumo…). Talvela diventò rapidamente il beniamino dei più grandi direttori: da Solti, con cui interpretò, nel 1969, Sarastro, una mitica Messa da Requiem di Verdi (con Pavarotti e la Sutherland), e l’Ottava di Mahler, a Levine, ancora nel ruolo di Sarastro, al Festival di Salisburgo nel 1982, a  Klemperer, a Von Karajan, nella Walküre, al leggendario Knabbertbusch, a Böhm. Morì prematuramente, ma ebbe il tempo di incidere una straordinaria Winterreise di Schubert.

Altro finlandese, Matti Salminen, anch’egli amato dai grandi direttori (Sawallisch, Colin Davis, Levine, Boulez, Baremboim, il mai abbastanza rimpianto Sinopoli, von Karajan, Abbado). Fu un grande interprete operistico soprattutto wagneriano (Fafner, Fasolt, Hunding, Titurel, Langario, Re Marke, Hagen), ma interpretò anche il Don Carlo di Verdi, sia come Filippo II sia come Grande Inquisitore (alla Scala, con Raimondi, diretto da Abbado, e, sempre con Raimondi, a Vienna, diretto da Karajan). Indimenticabile (grazie anche, per fortuna, all’incisione discografica) la sua presenza, come Giuda, Pietro, Pilato e Pontefice, nella bachiana Matthäus-Passion diretta da Richter.

Un altro dei più grandi bassi del Novecento è Kurt Moll, al quale, per caratteristiche vocali e di temperamento, si avvicina di più Morisani.

Esordì come Sarastro nel 1970 a Salisburgo, con i Wiener, diretti da Sawallisch, col quale interpretò anche la Missa Solemnis, al Vaticano, davanti a Paolo VI (con Christa Ludwig e Placido Domingo). Ricoprì quasi tutti i ruoli più importanti del repertorio, riuscendo particolarmente efficace in quello del barone Ochs di Lerchenau nel Rosenkavalier (esistono per fortuna, parecchie edizioni discografiche, e anche in DVD, dei vari allestimenti, con direttori diversi).

Inevitabile un certo rammarico, ripensando a Morisani, per il fatto che egli non abbia incontrato (più plausibilmente, non abbia cercato né accettato) un grande direttore che lo “adottasse” e gli imponesse un repertorio capace di esaltare le sue indubbie doti. Pur avendo avuto ben sessanta opere in repertorio, è un peccato che non abbia mai interpretato Sarastro e soprattutto il barone Ochs (ma il Rosenkavalier è spiccatamente opera da Teatri e Festival tedeschi e direttori-mito come Carlos Kleiber), né musica sacra, dove spesso il ruolo del basso è fondamentale (Matthäus-Passion o Missa Solemnis), o la Nona di Beethoven, lavori nei quali sarebbe stato sicuramente all’altezza del più noto collega.

Fra gli italiani, soprattutto: Ezio Pinza, Cesare Siepi, entrambi, come già ricordato, celeberrimi Don Giovanni, e Nicola Rossi-Lemeni.

Pinza, a 18 anni, dovette prendere la decisone forse più difficile della sua vita: scegliere fra la carriera di… ciclista professionista e quella di cantante. Non si sa se il mondo dello sport abbia perso un campione, di certo quello della lirica ne ha acquistato uno, e di notevole peso. Esordì a 22 anni come Oroveso nella Norma, poi partecipò alla Prima Guerra Mondiale arrivando al grado di capitano; tornato sulle scene, interpretò La Vestale di Spontini, sia alla Scala sia al Metropolitan. Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, fu imprigionato per sospetta attività spionistica e liberato grazie all’intercessione, fra gli altri, di Thomas Mann e Fiorello La Guardia.

Nel 1942, il ruolo chiave del suo percorso artistico, quello di Don Giovanni, con la direzione di Bruno Walter (ben 200 repliche). Con Toscanini nella Messa da Requiem di Verdi e nella Nona di Beethoven. Dal ‘47 prese parte a numerosi film, fra cui, nel 1952, Tonight We Sing di Leisen, in cui rivestiva il ruolo di un altro celebre basso, Fedor Saliapin. Nel 1948 una svolta: il musical South Pacific, con cui raggiunse un’immensa popolarità (1295 repliche!). Ma, oltre a queste performance piuttosto… atipiche, vanno ricordate anche le sue partecipazioni a numerosi debutti di opere prime, da La campana sommersa di Respighi, a Fra Gherardo di Pizzetti, a  Madama Imperia di Alfano.

Cesare Siepi prese in qualche modo il testimone dalle mani di Pinza, sia come interprete del Don Giovanni, sia per le sue escursioni nel mondo del Musical. Milanese, debuttò nel 1941 come Sparafucile nel Rigoletto; antifascista, nel 1943 fuggì in Svizzera. Nel ’48 prese parte al concerto in commemorazione di Boito, con Toscanini alla Scala. Nel 1950 e ’51, sempre sotto la direzione del grande Maestro, al Metropolitan nella verdiana Messa da Requiem. Sempre nel ’50 e sempre al Metropolitan, il ruolo di Filippo II nel Don Carlos (ben 491 repliche!). Nel 1952, presta la sua voce “piena, risonante, omogenea e dal timbro assai pastoso” al Don Giovanni, che l’anno successivo interpreterà a Salisburgo con Furtwängler. Anche lui prese parte ad alcuni Musical e cantò arie “leggere”, in particolare di Cole Porter.

Nicola Rossi-Lemeni, di madre russa e padre italiano, fu un formidabile interprete del Boris Godunov, ma anche del Don Giovanni, e soprattutto tenne a battesimo varie opere moderne, dal Macbeth di Bloch a Uno sguardo dal ponte di Rossellini (da Miller), a Billy Budd di Britten, a Assassinio nella cattedrale di Pizzetti (da Eliot), in cui era Tommaso Becket.

Esula dai limiti di questo contributo una trattazione specifica sulle doti di Morisani, così ben illustrate dall’elegante, appassionata biografia di Carmelo Neri e dalla ricostruzione condotta con rara perizia di connoisseur  da Arrigo Valesio, ma non si può prescindere dal porre la questione di come Morisani, il basso profondo Romeo Morisani, si collochi nel contesto prima delineato.

Dalle foto, e soprattutto dal ritratto che ne disegna, con molta delicatezza, ma anche rara efficacia, il nipote Antonio Lazzarino De Lorenzo, vien fuori la figura di un uomo felice di stare al mondo, generoso, di sé e della propria voce, dongiovanni quanto necessario (caratteristica peraltro assai diffusa nel mondo della lirica, vedi Di Stefano o Domingo), vanitoso il giusto, grande fumatore, perciò non troppo incline al rigore che la vita di un cantante pretende. Per molti versi simile a Caruso, soprattutto nel modo di darsi, se non nella fortuna. Ma ecco un brano della “testimonianza” di Lazzarino: “Di bell’aspetto, bruno e dal fisico prestante, occhi fulminanti, incarnava perfettamente l’immagine del gentiluomo meridionale sempre raffinato e galante, distinguendosi per il garbo che gli era proprio, specie verso le belle signore. Circa la meritata fama di Dongiovanni, risulta interessante un’intervista rilasciata in Bogotà nell’agosto del 1950 al quotidiano Sabado, nella quale l’arguto giornalista, sapendo delle sue conquiste, conclude con alcune maliziose domande alle quali lo zio, da gentiluomo, risponde solamente con un abbozzato sorriso … la sua simpatia, il magnetismo, la générosité del bon vivant, la sua accattivante risata che forte e poderosa invadeva la casa e tutti ci coinvolgeva.”

Ma sul piano più specificamente professionale, quali erano le sue caratteristiche? Secondo le preziose, ben documentate, testimonianze di Neri e Valesio “la sua voce non solo si distinse perché bella e capace di caldi e sinceri accenti, ma anche per la potenza dell’emissione e il timbro possente, una voce ampia e armoniosa … si faceva apprezzare anche per l’uso sapiente che sapeva farne …”.

Poteva passare, con la stessa padronanza, dal ruolo di basso comico di Don Basilio (l’aria de La calunnia era un suo cavallo di battaglia) a quello di Plutone nell’ Orfeo (nel 1943, Tito Gobbi era il mitico cantore, direttore Franco Capuana) al Tigellino in Nerone (l’opera di Boito, non quella di Mascagni), al Varlaam nel Boris Godunov (interpretato, questo, da Boris Cristoff), a Re Enrico L’uccellatore nel Lohengrin, a Hunding nella Walküre, al “maestro cantore” Fritz Kothner, fino al ruolo forse più inquietante di tutta l’opera lirica, Il  Grande Inquisitore del Don Carlos (come lo è, nella narrativa, il personaggio di Dostoevskij ne I fratelli Karamazov: “l’episodio del Grande Inquisitore è uno dei vertici della letteratura universale”, questo il giudizio di Freud).

Di questa performance esiste una rara registrazione, in cui duetta con Rossi-Lemeni (Don Carlos).

I due grandi cantanti si affrontano ad armi pari, ed emerge nitidamente, sia pure dal semplice ascolto, la “pregnanza” scenica delle loro voci, capaci di “riempire” il teatro, e, a fronte della brillantezza di Rossi-Lemeni (Filippo II), la straordinaria densità espressiva di Romeo Morisani, il quale infonde alla figura del suo personaggio, cieco e novantenne, arbitro del destino di tutti i protagonisti della vicenda, alla cui volontà lo stesso Filippo deve piegarsi, la necessaria autorevolezza scenica e potenza vocale.

 

Carmelo Neri – Arrigo Valesio
DOMENICO ROMEO MORISANI
Vita e arte del famoso basso calabrese
Con una testimonianza del nipote
Antonino Lazzarino De Lorenzo
Presentazione di Luca Verdone
Prefazione di Rocco Familiari
CITTA’ DEL SOLE edizioni, dicembre 2020
Euro 25,00

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