Pietro Germi, ricordo del regista vittima della critica di sinistra: i suoi operai non piacevano al Pci
“A me piace cambiare, mi annoio a fare lo stesso film. Un regista è una chitarra, sulla quale si possono suonare diverse arie, allegre o tristi, ma la risonanza sarà sempre quella, a meno che a un certo punto la cassa armonica non si incrini, e la chitarra non suoni più. Ma finché la cassa è buona, c’è la possibilità di suonare cose diverse su una stessa chitarra”. Quello riportato, è non solo un concetto, espresso dal Maestro del Cinema italiano Pietro Germi, ma andando a sfiorare e scomodare il linguaggio del “politichese”, è un vero e proprio “indirizzo programmatico” di scelte e vita artistica.
Pietro Germi, regista geniale e versatile
A questa impostazione, terrà fede durante tutta la sua significativa e lunga carriera. Il cineasta morto il 5 dicembre del 1974 infatti, dimostrando una competenza e versatilità fuori dall’ordinario, passò dal trattare crudi e severi argomenti sociali della sua epoca, facendo sortite, affrontando il genere noir. Esempio “Un maledetto imbroglio”, dal romanzo di Carlo Emilio Gadda “Quer pasticciaccio brutto di Via Merulana”.Per poi virare su un altro genere, “la commedia all’italiana”, che fu battezzata in questo modo in occasione dell’uscita del suo indimenticabile film “Divorzio all’italiana”, avente come protagonisti una giovanissima Stefania Sandrelli, attrice scoperta e lanciata da Germi, e da un già affermato Marcello Mastroianni. Il film è del 1961, quando ancora era vigente nel nostro Ordinamento il “delitto d’onore”, ma non c’era ancora il divorzio.
Gli esordi
Germi, nella narrazione cinematografica, gira il dito nella piaga delle caustiche contraddizioni prodotte dallo stato dei fatti dell’epoca. L’opera, ambientata in Sicilia, ebbe un impatto internazionale estremamente rilevante. Vinse alla Mostra del Cinema di Cannes, ottenne tre candidature all’Oscar. Quello per la migliore sceneggiatura fu coronata dal Premio. L’attore-regista era nato a Genova il 14 settembre del 1914 da famiglia nella quale il padre lavorava come portiere d’albergo, la madre casalinga e tre sorelle. Una prima fase della sua produzione artistica si orientò sul genere poliziesco o noir. Il suo film d’esordio del 1945 “Il testimone”, è il primo di quelli che segneranno questo periodo. Ricordiamo di quella fase “Gioventù perduta”, “La città si difende” premiato al Festival di Venezia, “In nome della legge” con Massimo Girotti, campione d’incassi, vincitore di tre nastri d’argento.
Pietro Germi e la famosa intervista a Oriana Fallaci
Da evidenziare che il film del cineasta ligure affrontò coraggiosamente e apertamente,un argomento del quale fra omissioni e reticenze quasi non se ne poteva parlare: la mafia. Il regista ligure non si può dire che avesse un carattere facile. Scontroso, avvolto per lungo tempo in silenzi lunghi, repentini di difficile interpretazione per coloro i quali avevano la ventura di assistervi. Su questo lato di ombrosità affiorante si stagliava sempre tra le labbra il sigaro. Non era fondamentale che fosse acceso, l’importante era che la personale coperta di Linus fosse a disposizione. Celebri sono rimaste le modalità con le quali concesse un’intervista a Oriana Fallaci, che gli fece guadagnare il soprannome di: il regista con la porta chiusa. Domande e risposte di quella intervista, furono scritte su foglietti, che viaggiavano sotto la soglia della porta dietro la quale era appostato l’intervistato. Ma il carattere risoluto contro le ipocrisie dalle quali era minata la società italiana dell’epoca, sbilanciata anche negli assetti valoriali precedenti non potevano essere lasciati trascurati dallo sguardo acuto dell’uomo di cinema. Germi, di tutto ciò fu un attento fustigatore.
Criticò la mancanza di “senso religioso” nella società del benessere
“Ho voluto prendere di mira, quella smania di vivere, di divertirsi e di essere frivoli, ossia quella mancanza di senso religioso della vita associata, che contrassegna la società del benessere”. Si riferiva a “Signore e signori”, film ambientato in un luogo del Veneto non meglio precisato. La laboriosa piccola borghesia e imprenditoria di provincia, tra il chiaro scuro delle nebbie, accantona certi paradigmi degli insegnamenti della morale cattolica, specialmente nel campo dei comportamenti familiari e sessuali. La caustica critica che il regista sollevava, era quella su un perbenismo ombrato, da aloni di mani sporche messe nella marmellata dell’ipocrisia. Sotto un profilo artistico, la pellicola fu premiata con ben tre Nastri d’Argento e due David di Donatello. Riconosciuto a Cannes come il miglior film ex aequo con “Un uomo e una donna” di Lelouch. Anche la risposta del botteghino fu ottima. Film che con “Divorzio all’italiana” e “Sedotta e abbandonata”, costituiscono la trilogia dei film sulla critica di costume dell’autore ligure.
Le critiche dell’intellighenzia di sinistra a Germi
Per la realizzazione di essi sotto la sua direzione avevano lavorato interpreti quali Virna Lisi, Gastone Moschin, Alberto Lionello, solo per citarne alcuni. Le spudorate verità, che aveva messo in luce, gli attirarono diversi ostili pronunciamenti, a cominciare da quelli del mondo cattolico. L’opinione pubblica veneta non gradì nel vedersi rappresentata in quel modo di leggerezza sfrenata e senza scrupoli. Germi dava letture, impavide, controcorrente, basate sull’osservazione di quel fiume in piena, che erano le grandi trasformazioni che si stavano compiendo nell’Italia del dopoguerra che si affacciava al benessere trainato dal boom. Con pellicole come “Il ferroviere” e “L’uomo di paglia”, l’autore poneva in risalto gli aspetti umani, fatti di sentimenti passioni travolgenti dei proletari in carne ed ossa. Solitudini angosciate di fronte allo sfarinamento dei propri nuclei familiari, la tentazione dell’alcol per tentare di affogarvi drammi, traumi, dolori.
Al Pci dell’epoca gli operai descritti da Pietro Germi urtavano i nervi
Mentre i valori di riferimento si fanno sempre più evanescenti. Per i personaggi protagonisti “la coscienza di classe”, non costituiva una stampella sufficiente a sostenerli nelle loro drammatiche circostanze. Poetica cinematografica, che andò immediatamente invisa alla critica militante di sinistra. Tanto che in alcune di esse, come questa del comunista Umberto Barbaro si potevano leggere cose di questo tono: “… questi operai di celluloide, che se fossero in carne ed ossa, voterebbero socialdemocratico e ne approverebbero alleanze fino all’estrema destra, non solo sembrano caricature calunniose, ma mi urtano maledettamente i nervi”. Per i tempi, tacciare una persona di essere socialdemocratica, come tra l’altro era Germi, in certi ambienti di sinistra, veniva considerato un insulto infamante. Ancora fresche erano le ferite della scissione di Palazzo Barberini.
Il conformismo imperante lo guardò sempre dall’alto in basso
Quella scelta, contro l’Imperialismo sovietico, contribuì a zavorrare l’Italia nella sfera del mondo libero Occidentale. Nonostante la messe di riconoscimenti e premi ricevuti, il variegato mondo dei pavidi e conformisti continuarono a guardarlo dall’alto in basso. Certo che con il coriaceo carattere che aveva, non era tipo da fare sconti ad alcuno. “La supercazzola prematurata per due come fosse antani”, è un gioco di parole, diventato di uso comune. Germi fu il creatore di quel drappello di buontemponi, che tra una zingarata e l’altra, la svisceravano prendendosi gioco degli interlocutori. Contro ogni evidenza perpetuavano con le loro “bischerate”, il tentativo di restare ancora ragazzi. Il Perozzi, il Conte Mascetti, il Necchi, il Sassaroli, sono le “maschere” contemporanee che sembrano create per difenderci, metterci al riparo in qualche modo dalle tracotanti avversità dell’esistenza.
La saga di “Amici miei” che non potè girare
I personaggi erano interpretati da attori straordinari quali Philippe Noiret, Ugo Tognazzi, Gastone Moschin, Adolfo Celi. Il film uscì nel 1975. Fu portato a compimento registicamente parlando da Mario Monicelli, poiché le condizioni di salute non permisero all’ideatore di “girarlo”. Ci lascerà infatti il 5 dicembre 1974. Rimane comunque come riportato nei titoli un film di Pietro Germi, con la regia di Mario Monicelli. La sagra di non prendere niente troppo sul serio, cominciando da sé stessi, è l’indicazione di una possibile strada da percorrere per alleggerire le circostanze più amare. Sembra sia questo il suggerimento che l’autore ci dà, come preziosa medicina da prendere contro le paludi della vita. Sempre tenendo il sigaro ben serrato tra le labbra, s’intende.