Rampelli ricorda Buontempo: “Il mio maestro, sempre dalla parte dei deboli”

25 Apr 2020 12:42 - di Fabio Rampelli

A sette anni dalla morte di Teodoro Buontempo, riceviamo da Fabio Rampelli un suo ricordo.

Teodoro Buontempo è stato un po’ il mio maestro, sempre dalla parte dei più deboli, sempre pronto a sfidare la piazza, la strada, la borgata, le fabbriche, sempre alfiere delle più grandi battaglie per la giustizia sociale e per l’ambiente.
Era amato anche nei salotti buoni, li frequentava e gli volevano bene per la sua schiettezza e umanità, ma non si è mai fatto condizionare da nessuno, né dai capi bastone né da potenti ricconi che andavano a comprarsi il politico di turno. Questa è stata la sua forza, questo il suo messaggio: parlare con tutti e guidare la causa degli ultimi, soccorrere i più fragili, difendere l’ambiente che, da buon abruzzese di Carunchio, adorava. Fu il primo Direttore Responsabile della rivista ‘Per Fare Più Verde’, fondata da Paolo Colli. La natura, aggredita dalla speculazione edilizia, lo chiamava in campo e lui non si faceva certo pregare, dedicandogli buona parte delle sue energie. Un trionfo di vitalità.

Lo ricordo nella battaglia contro le centrali nucleari, in quella per la difesa del Pratone delle Valli a Conca d’Oro e poi nella monumentale crociata, vinta, per scongiurare i 2 milioni di metri cubi di cemento a Tor Marancia, nel Parco dell’Appia antica. L’abbiamo combattuta dal basso della militanza, ignorando gli appelli a ‘cessare le ostilità’ e il ‘fuoco amico’, ma tra i meno giovani la copertura politica della “voce di Roma” rappresentò uno scudo solido.
Vederlo, piccone in mano, realizzare lo scivolo per disabili a Montesacro o a bordo di una gru convincere un abusivo cui stavano abbattendo la casa a non gettarsi nel vuoto ha rappresentato un’emozione senza eguali. Vai a cercarlo oggi qualcuno disposto ad associare la sua immagine a un abusivo, troppo politicamente scorretto. L’umanità che prevale sul freddo calcolo, lo slancio sul cerimoniale.
Insieme abbiamo galoppato nella periferia romana tra un comizio e l’altro, a Case rosse, San Basilio, La Storta, La Rustica, Romanina, Corviale, Tufello, Spinaceto, Serpentara, Torbellamonaca, Palmarola, pezzi di città proibiti alla destra che ogni tanto ci accoglievano con vasi che venivano giù dai balconi e urla di disappunto. Nei tanti paesi della Provincia era atteso come un vecchio amico, in giro per l’Italia come una boccata di ossigeno.
E poi il mare… il rapporto con il Lido di Roma, suo collegio elettorale, è stato come quello tra un diamante e la conca d’oro nella quale s’incastona, una relazione ancestrale e struggente. Perché a Teodoro non riusciva mai di fare le cose con freddo distacco, tanto per parlare o apparire, immiserire nella bassa propaganda un disagio sociale. Prendeva le battaglie per il collo e ci restava sopra fino all’ultimo, fino a varcare la soglia di casa di ognuno, trattenersi a pranzo o a cena, diventare parte di ogni famiglia. L’esatto opposto di questi leader biodegradabili che cavalcano l’onda tra una foto e l’altra, esattamente il tempo necessario per abbandonare una causa e saltare su un’altra. Tutto in superficie, tutto per finta, come a recitare il copione di un film. È per questo che gli eroi moderni durano poco, non rischiano di morire in trincea o di essere impiccati dalla folla nei giorni del declino, non gli si spaccherà mai il cuore per eccesso d’amore.
Pedalava sul Lungomare di Ostia su una bici nera molto più grande di lui, dormiva da ragazzo in una Fiat 500, pernottava spesso nella sede del Fronte in Via Sommacampagna e poi in quella della Federazione del Msi in Piazza Cavour.
Il suo partito non credette nella magnifica e avveniristica sfida di Radio Alternativa, lasciando sfumare un’esperienza nella quale molte avanguardie culturali della destra romana si sono forgiate e nella quale lo affiancò un’altra militante d’eccezione, sua moglie Marina. Battaglia infinita con il ripetitore di Monte Cavo, le concessioni, i tecnici, le bollette… Il sogno finiva quasi sempre per prevalere sulla realtà.
Partì con un manipolo di seguaci – tra cui Paolo Di Nella – per soccorrere la popolazione irpina colpita duramente dal terremoto. Insieme a lui un altro gigante che bruciava il futuro: Giampiero Rubei, il re del Jazz.
La sua vita è stata un’opera lirica, cultura popolare, radicamento, azione sociale.
Che meraviglia, Teodoro, che meraviglia!
Uno spazio vitale infinito, un affresco inimitabile.
Tra tanti libri scritti nessuno ha osato comporre la tua storia, ricostruendola casa per casa tra la tanta gente che ti adorava e ti offriva quel grappino di rito che leniva corde vocali cui chiedivi l’impossibile, sempre rigonfie e infiammate. Straccioni, emarginati, professionisti, industriali, ragazzi pieni di voglia di lottare, ma anche giovani che volevano divertirsi ballando. E lui li andava a trovare dopo mezzanotte e ballava con loro. Tutti per Teo.
Saggistica e politologia dedicano interi copiosi volumi ai leader, comprensibilmente ignorati da gran parte del pubblico perché solitamente aridi e inanimati.
Giornalisti e intellettuali se la suonano e se la cantano, si descrivono reciprocamente con l’illusione di diventare storia. Ma la storia ha un ritmo, trasuda calore, fa piegare distese di grano maturo al vento della passione.
Ci sono libri scritti con l’inchiostro e libri scritti col sangue, impataccati, con le pagine sgualcite, le foto strappate, gli scarabocchi e le manate sopra. Sono i libri che non possono essere dati alle fiamme, che nessuno cancellerà mai.

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