Coronavirus, il medico Vavassori racconta il suo dramma: «Respiravo a fatica, pensavo di morire»

14 Mar 2020 9:26 - di Giorgio Sigona
Vavassori

Un racconto drammatico, commovente, quello di Angelo Vavassori. È un medico rianimatore dell’ospedale di Bergamo, ha 53 anni. Parla dal suo letto di terapia sub.intesiva a “Repubblica”. «Quando non sono più riuscito a respirare, ho temuto di non rivedere mia moglie e i nostri quattro figli. Fino a quell’istante avevo curato gli altri attaccati dal coronavirus. Ho visto pazienti morire», dice. «Conosco la sua aggressività. Così ho pensato che magari il momento del congedo era venuto anche per me». Da «intubato e incosciente» per Covid-19 si può tornare alla vita.

Vavassori ripercorre i giorni dell’incubo

«Se sono qui», testimonia, «lo devo ai miei colleghi medici, eroi non retorici. Nei momenti più duri mi hanno fatto sentire tranquillo. La mia storia, in ore nere, può aiutare molti a non lasciarsi andare». Vavassori ripercorre passo per passo tutti i momenti del suo incubo. Dal 22 febbraio quando «ho curato i primi infettati», a sabato 29 quando «mi è salita un po’ di febbre». Una febbre che non gli ha comunque impedito di continuare a lavorare fino alla mezzanotte di domenica.

L’inizio: «Respiravo a fatica»

«Lunedì verso sera avevo già 38,9 di febbre», ma «il paracetamolo era inutile» e l’ipotesi Covid-19 è sembrata la più logica. «Mi sono chiuso in una stanza di casa». Mercoledì 4 marzo il tampone e l’indomani la conferma: positivo. «La sera ho cominciato a respirare a fatica», ricorda il medico. «In pochi minuti ho perso olfatto e gusto, ci vedevo sempre meno. Per la carenza di ossigeno sono saliti anche mal di testa e dissenteria».

La radiografia: polmonite “scoppiata”

Serviva il ricovero, ma in ospedale non c’era posto. «Sapevo di non poter resistere a lungo», racconta Vavassori. «Respiravo, ma nei polmoni non entrava più ossigeno». Finché «alle 23 mi ha chiamato un collega per dirmi che si era liberato un letto. La radiografia ha confermato che la polmonite era scoppiata».

Le ore più dure

Cominciano così le ore più dure. «La dispnea toglie totalmente il fiato» dice il medico. «Mi hanno infilato subito nel casco» Cpap. «Ho provato a farcela senza essere sedato e intubato. Si perde comunque conoscenza, non è stato facile». Il momento più difficile è stato l’inizio. Ricorda il medico: «Nel casco della ventilazione il rumore è assordante, il flusso dell’ossigeno è caldo. Si suda e sembra di soffocare ancora più di prima. Invece un po’ alla volta senti che, se tiri, entra aria. Sono un rianimatore, per giorni ho curato i contagiati, conoscere le loro reazioni mi ha aiutato a resistere».

Vavassori: «Il confine tra la vita e la morte»

Come terapia c’era «il cocktail di antiretrovirali previsto dal protocollo», ma lo stesso «per un paio di giorni sono stato assente. Avverti nel sonno che medici e macchine ti infondono ossigeno e ti idratano. Il tempo si concentra in un istante. Ora so che è questa accelerazione che cancella passato e presente, il confine tra la vita e la morte».

Il risveglio

Poi finalmente il risveglio: «Pensavo di essere a casa, appena assopito»,  racconta ancora Vavassori. «Invece nel letto accanto al mio c’era un paziente che avevo curato io per Covid-19. Come ai bambini, ogni cosa appare nuova e straordinaria. Questo dramma ci insegna il valore di ogni piccola cosa». Adesso «sonoin Gastroenterologia, riconvertita a Covid-19. Respiro con una mascherina che rilascia ossigeno al 70%, circa 12 litri al minuto. Accanto a me ci sono i miei malati. Sono sorpresi quando capiscono che mi sono trasformato in uno di loro».

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