«Le partite Iva strozzate dallo Stato. Così non ci fanno più vivere». La denuncia di un imprenditore al “Secolo”

28 Gen 2020 16:45 - di Giorgia Castelli
Partite Iva
Le partite Iva non ce la fanno più. «Ho deciso di lavorare e pagare le tasse in Italia, aprendo una partita Iva. Con coraggio, direi, malgrado tutto. Ma forse ho peccato di ottimismo…». Lo scrive in una lettera inviata al Secolo d’Italia un imprenditore che ad Anzio gestisce una trattoria a conduzione familiare. E che ha aperto una partita Iva. La sua è una denuncia forte, parla di un fisco che opprime i piccoli imprenditori e tutti quelli che hanno aperto le partite Iva. E racconta passo passo quello che quotidianamente subiscono i commercianti.

Partite Iva, la denuncia

Lo Stato spreme le partite Iva. «Diventa sempre più difficile per noi – scrive l’imprenditore – piccoli commercianti, far fronte ad una pressione fiscale sempre più forte. Il fisco ci spreme come limoni con ulteriori spese come quella per l’acquisto di un registratore di cassa adatto per la fatturazione elettronica. Obbligatoria per legge, poi bisogna aggiungere il commercialista, i registri, i bolli e via dicendo». Un vero e proprio paradosso. «Dobbiamo pagare noi per azioni e strumenti che servono per controllare ciò che pretendono che versiamo. Così non ci fanno vivere – si legge ancora –  e chissà fino a quando riusciremo a resistere. E pensare che la Corte europea ha condannato l’Italia per i ritardi dei pagamenti nella pubblica amministrazione, notizia di queste ultime ore».

L’incapacità gestionale dello Stato

L’imprenditore fa osservare che da una parte le imprese subiscono l’incapacità gestionale dello Stato. Dall’altra «a subire sono commercianti come me, che portano avanti un’attività con mille sacrifici. E in un territorio a volte privo delle necessarie opere di urbanizzazione. E al primo errore ecco scattare multe salate, peggio degli strozzini». E che la situazione sia difficile è sotto gli occhi di tutti. Le partite Iva arrancano tra mille difficoltà.

Partite Iva e fuga delle grandi aziende

«I nostri giovani scappano – si legge ancora nella lettera inviata al Secolo – non vogliono seguire le aziende dei propri genitori. E per chi, come me, ama il suo lavoro è un colpo al cuore veder morire la propria azienda. Sul litorale laziale hanno chiuso locali storici di Ostia, Civitavecchia, Fiumicino, Torvaianica, Anzio e Nettuno. Le grandi aziende fuggono, ma noi che futuro abbiamo? Per poter sopravvivere in un momento di crisi come questo ci facciamo la guerra dei prezzi tra noi, per attirare i clienti, per non vedere i nostri locali vuoti. Poi arriva lo Stato e quel poco che abbiamo guadagnato ce lo porta via».

Lo Stato partorisce il reddito di cittadinanza

E infine: «Il commercio è sempre stato una risorsa per il Paese, con una tassazione equa potremmo assumere di più e aiutare a smaltire la disoccupazione. Lo Stato italiano, invece, partorisce provvedimenti come il “reddito di cittadinanza”, un contentino che non può essere una soluzione. Attendiamo – conclude amaro – (ma non troppo) fiduciosi».

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