PIAZZA FONTANA OLTRE LA RICORRENZA-3. La strategia della tensione puntava a colpire il Msi

28 Dic 2019 13:04 - di Aldo Di Lello

La strategia delle tensione è il centro di confluenza di un pericoloso cocktail di interessi, sia interni sia internazionali. Nella puntata precedente abbiamo esaminato alcuni profili esteri. Soprattutto riguardo al conflitto geopolitico nel Mediterraneo in atto, negli anni ‘60 e ’70, tra l’Italia e Paesi, pur alleati, come la Gran Bretagna e la Francia. Oggi torniamo invece al profilo interno, sollecitati anche dalle numerose pubblicazioni uscite in occasione dei 50 anni di piazza Fontana.

Interessante è quanto scrive lo storico Angelo Ventrone nel già citato libro dal titolo La strategia della paura (Mondadori 2019). Chi pensò la strategia delle tensione puntava a ottenere la «stabilizzazione moderata del Paese». Lo schema era quello di creare una «grande confusione» in cui le responsabilità potessero ricadere in vario modo sia sulla destra sia sulla sinistra. Lo studioso sostiene che l’obiettivo politico principale era quello di contenere l’avanzata del Partito comunista. Un’avanzata favorita in quegli anni dalle proteste studentesche e operaie. Di qui l’idea della “svolta autoritaria” che sarebbe dovuta seguire alla strage di piazza Fontana.

Un golpe vero e proprio non era in realtà negli obiettivi degli strateghi del terrore. Quanto piuttosto un sorta di continua pressione sulla politica volta a tenere costantemente, con le buone o con le cattive, la barra al centro. Sullo sfondo c’era la guerra fredda, con il conseguente interesse dell’establishment atlantico a scongiurare la possibilità che l’Italia subisse sbandamenti verso posizioni neutraliste e, di fatto, filo-sovietiche.

Strategia della tensione: alla Dc serviva colpire il Msi

È una ricostruzione che ha certamente il suo fondamento. Ma che risulta anche parziale e reticente. E questo perché non tiene conto di un dato di fatto inoppugnabile. A correre seriamente il rischio della messa fuori legge, nella realtà, non fu il Pci ma il Msi. E, sempre il Msi, fu il partito che subì la vera persecuzione e il vero isolamento politico. Se, insomma, la strategia della tensione doveva servire a colpire sia a destra sia a sinistra, dove colpì più duramente fu a destra e non viceversa. E il motivo politico era semplice. L’Italia era in quegli anni in procinto di spostare il suo baricentro a sinistra. Ciò per effetto del logoramento del rapporto di collaborazione tra democristiani e socialisti. La Dc aveva pertanto bisogno di coprirsi a destra, disattivando la pericolosa concorrenza del Msi. Che proprio in quegli anni colse i suoi maggiori successi elettorali, raggiungendo l’8,7 dei consensi nelle elezioni politiche del 1972.

Fu proprio in coincidenza con quei successi, nel biennio 1972-1973, che il tentativo di criminalizzare il partito della destra italiana raggiunse il suo culmine. A favorire quel tentativo erano settori del ministero dell’Interno e della magistratura. Ricordiamo solo che nel giugno del 1972, ad appena un mese dalle trionfali elezioni di maggio, il procuratore generale di Milano, Luigi Bianchi d’Espinosa, invia alla Camera la richiesta di autorizzazione a procedere a carico di Giorgio Almirante per ricostituzione del partito fascista.

Ma il momento più grave e drammatico è il 12 aprile 1973, con il tristemente famoso “giovedì nero” di Milano. La polizia carica una manifestazione del Msi vietata all’ultimo momento. Ne nascono incidenti che portano alla morte di un giovane agente di polizia, Antonio Marino.

Torbide manovre per mettere fuori legge il Msi

La responsabilità maggiore dei gravi disordini ricade, come vedremo tra breve, sullo sconcertante comportamento del prefetto Libero Mazza e del questore Allitto Bonanno. È il caso di evidenziare che ancor oggi si tende ad addossare le colpe al Msi. A seguito del “giovedì nero”, nota Ventrone, «è andata del tutto in frantumi l’immagine del Msi come “partito d’ordine” , come unico argine al caos dilagante».

In realtà le conseguenze non sono solo d’immagine. C’è dell’altro: per effetto degli incidenti del 12 aprile, il Msi è a un passo dalla messa fuori legge e dal conseguente scioglimento. Le torbide manovre del ministero dell’Interno e della Dc stanno per andare in porto. A capo del Viminale c’è Mariano Rumor. Il governo è presieduto da Giulio Andreotti. L’esecutivo verrà ricordato come il governo Andreotti-Malagodi. È l’estremo, effimero tentativo di risvegliare lo spirito centrista archiviando il primo centrosinistra. Di fatto, quel governo servì solo a fornire un’alibi alla Dc per preparare la stagione della collaborazione con il Pci.

Racconta bene come andarono le cose, in quel tragico 12 aprile, uno dei massimi dirigenti missini di allora, Franco Servello, nel libro 60 anni in fiamma (Rubbettino 2006). Scomparso nel 2014, Servello era all’epoca vicesegretario nazionale del Msi-Dn, nonché responsabile della federazione milanese del partito. Il suo è un racconto di estremo interesse perché descrive in presa diretta una delle più spudorate manovre volte alla messa al bando del Msi. O quantomeno alla sua definitiva marginalizzazione.

Al 12 aprile –ricorda Servello- si arriva dopo un lungo tira e molla tra federazione del Msi, questura e prefettura sulla manifestazione da tenersi in quel giorno. All’inizio, nel mese di marzo, i dirigenti missini milanesi propongono un corteo. Servello è subito convocato in prefettura insieme al questore e al comandante della legione dei carabinieri. Lo scopo è quello di stabilire l’itinerario della manifestazione, onde evitare incidenti. In quegli anni Milano è devastata dalla violenza e dalla forza di intimidazione dei gruppi di estrema sinistra.

La trappola allestita dal prefetto e dal questore di Milano

Durante la riunione in prefettura, l’alto esponente missino percepì che «c’era qualcosa di strano nell’aria». «Accadde un piccolo episodio che non ho mai raccontato prima. Lì per lì non diedi peso alla cosa. Però, alla luce dei fatti successivi, l’episodio acquista una sua rilevanza. Mentre uscivo dalla prefettura mi si avvicinò il comandante dei carabinieri. Mentre mi salutava, indicò con gli occhi Allitto Bonanno e mi sussurrò: “Si guardi da quello”». Era il timido avvertimento che, ai danni del Msi, si stava preparando una trappola.

Nei giorni successivi, e dopo un paio di altri incontri in prefettura, le autorità decidono che il Msi deve rinunciare al corteo. «Per ragioni di ordine pubblico, l’autorizzazione era quindi solo per il comizio, da tenere il pomeriggio del 12 aprile in piazza Tricolore».

La trappola scatta la mattina del giorno fissato per la manifestazione. Il prefetto telefona a Servello per dirgli che anche l’autorizzazione per il comizio è revocata. «Dovevamo restarcene a casa». È chiaro, a quel punto, che prefettura e questura vogliono gli incidenti. È pressoché impossibile – nel 1973 , quando i cellulari sono ben lungi dall’essere inventati- fermare all’ultimo momento la macchina organizzativa di una manifestazione politica. «Verso mezzogiorno – ricorda sempre Servello nel libro- c’era già molta gente. Buona parte veniva dalla provincia di Milano e da altre località più lontane. Quando appresero che dovevano tornarsene a casa, molti furono presi da un moto di rabbia e si diffuse un clima di protesta».

Ordini incendiari alla polizia nel “giovedì nero”

Servello e gli altri dirigenti milanesi non si arrendono. E provano a salvare la situazione in extremis. Cercano un luogo alternativo, al chiuso, dove far affluire i partecipanti alla manifestazione. Ma trovano un muro nella prefettura e nella questura. La polizia riceve anzi ordini incendiari. «I reparti di P.S. erano stati schierati su tutti gli incroci che arrivavano a piazza Tricolore. Cosicché il deflusso era stato reso impossibile. Quando arrivò l’ordine di scioglimento, c’erano centinaia di persone intrappolate. La carica della polizia fu selvaggia».

«Gli scontri – continua il racconto di Servello- si spostarono sulle strade adiacenti. A un certo punto, dai manifestanti, ci fu quel demenziale lancio della SRCM in dotazione dell’esercito per l’addestramento dei soldati. Di per sé non era un ordigno particolarmente micidiale, ma disgraziatamente colpì il povero agente Marino in pieno petto facendogli esplodere i fumogeni che portava nella divisa».

Nel Msi scoppia il dramma. Alla rabbia e al dolore, si aggiunge la preoccupazione per quello che può accadere. «Mi consultai con Almirante. Stabilimmo che era necessario rigettare ogni responsabilità del Msi e dei suoi dirigenti su quanto era accaduto. Bisognava lanciare un segnale deciso all’opinione pubblica sull’opposizione del partito a qualsiasi pratica eversiva. A tale scopo annunciammo la taglia sul responsabile o sui responsabili del tragico episodio». Dopo due giorni gli autori vennero individuati. Erano il ventunenne Vittorio Loi, figlio del campione pugilistico Duilio, e il diciannovenne Maurizio Murelli. Entrambi frequentavano piazza San Babila.

La collaborazione del Msi con le autorità fu «un passo necessario», sottolinea Servello. «Era prioritario evitare di fornire qualsiasi pretesto a quelli, ai tanti, che puntavano a mettere fuori legge il partito».

Oltre al danno la beffa

«Msi fuori legge». Lo gridavano nelle piazze gli estremisti di sinistra. E, nelle alte sfere dello Stato, provarono, a un certo punto, a metterlo realmente in pratica. In ogni caso, quel tentativo di criminalizzazione ottenne l’effetto di arrestare l’avanzata della destra negli anni Settanta. Lo abbiamo già notato parlando di piazza Fontana: dietro la strategia della tensione c’erano menti tutt’altro che rozze.

Il “giovedì nero” di Milano fu provocato dall’alto. A dimostrazione che il Msi era nel mirino dei teoreti della destabilizzazione per la “stabilizzazione moderata”. «Io credo – è la conclusione di Servello – che il governo, la Dc e i vari burattinai della strategia della tensione e degli opposti estremismi cercassero un morto per inchiodare la destra. E, se non fosse successo a Milano, quel morto sarebbe stato cercato, con ogni probabilità, in qualche altra grande città».

La macchina persecutoria non si fermò lì. Nonostante la dirigenza milanese del Msi avesse fatto di tutto per scongiurare la violenza, lo Stato volle lo stesso fargliela pagare. Tra maggio e novembre del 1973 giunsero alla Camera due autorizzazioni a procedere per Franco Servello e per Franco Petronio. Quella di maggio era per ricostituzione del partito fascista. Quella di novembre era per resistenza aggravata a pubblico ufficiale e adunata sediziosa. Oltre al danno la beffa. La teoria degli opposti estremismi aveva di fatto, come obiettivo primario, l’emarginazione della destra.

(3-Continua)

 

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