Strage di Bologna, i teoremi illogici dei pm per far condannare a tutti i costi l’ex-Nar Cavallini

27 Nov 2019 18:11 - di Massimiliano Mazzanti
Strage di Bologna

Strage di Bologna, Riceviamo da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo:

Caro direttore,

Per riassumere le due ore di requisitoria del primo pubblico ministero nel processo per la strage di Bologna a carico di Gilberto Cavallini è sufficiente l’espressione: «Trentanove anni passati invano». Compresi i due di questo processo.

Secondo il pm Enrico Cieri, infatti, l’imputato dev’essere condannato all’ergastolo per il reato di strage in quanto, tra l’1 e il 2 agosto 1980, ospitò Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini a Villorba di Treviso.

Sempre secondo il pm, l’ex-Nar, ora imputato al processo per la strage di Bologna consegnò un documento falso a Valerio Fioravanti. E, infine, secondo il teorema della pubblica accusa, Cavallini mise a disposizione del gruppo dei Nar l’auto per raggiungere Bologna. E per consumare l’esecrando delitto.

Tutto ciò, nel quadro generale – composto dalle precedenti sentenze divenute irrevocabili – in cui sarebbero infissi i «quattro chiodi» che imprigionano gli imputati di allora e di oggi alle proprie responsabilità.

Quali? Vediamo. Innanzitutto la testimonianza di Massimo Sparti, il criminale comune che è stato smentito dallo stesso figlio, dalla moglie e dalla domestica.
Poi la falsità dell’alibi dei quattro – Francesca Mambro Valerio Fioravanti, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini – secondo i magistrati.
Quindi il movente dell’omicidio di Francesco Mangiameli.
Infine la telefonata intercorsa, poco prima della strage di Bologna, tra Luigi Ciavardini e Cecilia Loreti.

In altre parole, a dar credito a Cieri, il processo a Cavallini si sarebbe potuto risolvere in meno di una settimana.
Tanto più che, apparentemente, il più recente imputato della strage di Bologna, Gilberto Cavallini, risulterebbe addirittura reoconfesso. Perché? Non ha mai negato di aver ospitato i tre a casa sua.
Né, Gilberto Cavallini, ha negato di aver viaggiato in auto con loro il 2 agosto 1980.
Così come non ha mai disconosciuto di aver dato falsi documenti d’identità a Fioravanti.

Peccato, però, che tutte queste cose, oltre a non provare nulla, fossero stranote da sempre. E hanno portato intere schiere di magistrati ad assolvere più volte Cavallini dall’imputazione di strage.

Questo poiché nessun procedimento precedente è riuscito a collegare la riunione dei 4 a Villorba in un preciso contesto di premeditazione della strage di Bologna.

Tutte le ricostruzioni proposte, anche in questo dibattimento, non riescono a spiegare come si sarebbe organizzata, ai fini della strage di Bologna il ritrovo a Villorba. E, cosa più importante, chi dei 4 avrebbe portato con sé l’ordigno.

Nessun giudicato dice che Giusva o la Mambro avessero preparato e trasportato quell’improbabile ordigno, a Villorba. Altrettanto vale per Ciavardini.
Nel dibattimento appena concluso nessuno, pm o parti civili, è riuscito a dimostrare, in alcun modo, dove e come Cavallini avrebbe predisposto la bomba.

Semmai, hanno sentito – e non hanno potuto replicare, i pm – che l’auto con cui i 4 ex-Nar hanno ammesso di essersi recati nella vicina Padova, non sarebbe stata molto indicata per un viaggio fino a Bologna. E, tanto meno, con un carico così pericoloso.

Per non parlare, poi, degli orari. Che, se fossero quelli delle sentenze passate, sarebbero incompatibili con la presenza degli imputati il 2 agosto prima delle 10.25 a Bologna.

Tanto è vero che il pm Cieri, nell’ambito del ragionamento conclusivo, è costretto ad attaccarsi a Massimo Sparti, alla non credibilità processuale del figlio. E alla tanto dibattuta telefonata tra Ciavardini e la sua fidanzata di allora.

Anche se non spiega, il pm Cieri, l’illogicità evidente.
Se è verosimile che Cavallini potesse produrre e dare documenti falsi a Fioravanti, perché mai lo stesso Fioravanti avrebbe deciso di chiederne altri a Sparti?

Insomma, tutti elementi deboli che, da quarant’anni, hanno sollevato lo sdegno di decine, anzi, centinaia di giornalisti, intellettuali. E anche giudici che hanno pesantemente messo in discussione la “verità processuale” su Bologna.

Per altro, non è sfuggito ai più attenti come il pm Cieri, tralasciando con stile tranchant quelle che ha definito “piste alternative”, si è ben guardato, nel rapido elenco, dal citare la questione – imbarazzante – posta dall’esame del Dna dei resti attribuiti a Maria Fresu.

Esame – va sottolineato ed evidenziato – dibattimentale, disposto da questa Corte d’Assise. E che ha dato un risultato clamoroso. Dimostrando che c’è almeno una vittima in più, morta quel 2 agosto 1980 a Bologna. E della cui esistenza si è cercato di cancellare qualsiasi traccia.

Risultato così clamoroso da aver appunto, come ha ricordato lo stesso pm Cieri, indotto la Corte d’Assise di Bologna, nel recente ottobre, a tagliar breve anche sulle congetture delle parti civili. Congetture che riguardavano Piersanti Mattarella, Aldo Moro, Mino Pecorelli, la fantomatica Rete Anello e via dicendo.

Tutte congetture sulle quali, però, fino a quando non è esplosa la questione Maria Fresu, il processo che volge alla conclusione si è attardato per mesi e mesi. Ed è chiaro perché sul Dna e su Maria Fresu è meglio sorvolare. Perché è un macigno scientifico – scientifico nel senso autentico del termine – che schiaccia definitivamente tutto ciò che si aggancia alle sentenze passate in giudicato.

Quindi, eventualmente, anche la condanna che la Corte, su richiesta di Cieri e dei suoi colleghi, dovesse comminare a carico di Cavallini in questo primo grado di giudizio.

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