Terrorismo islamico: l’Italia resiste, ma attenti alla seconda generazione

14 Apr 2019 18:22 - di Redazione

L’Italia riguardo al rischio del terrorismo jihadista ha “una situazione virtuosa”, rispetto a quella di altri Paesi europei come la Francia, il Regno Unito o il Belgio, anche perché, essendo un Paese in cui l’immigrazione di persone di religione musulmana è più recente, i ragazzi della “seconda generazione” stanno “diventando adulti ora”. Però il “timore” è che, con una seconda generazione “ampia”, come c’è in altri Paesi europei, “aumenti statisticamente il rischio, dato che cresce il potenziale bacino di reclutamento, il che non vuol dire in alcun modo criminalizzare i figli degli immigrati”. A spiegarlo all’Adnkronos è Francesco Marone, ricercatore dell’Ispi e associate fellow dell’International Centre for Counter-Terrorism dell’Aja, in Olanda.

Terrorismo, anche l’Italia corre i suoi rischi

L’Icct ha da poco tradotto e ripubblicato, in inglese, un rapporto  a firma dello stesso Marone e di Lorenzo Vidino, che per la prima volta fa un quadro completo dei foreign fighters “tricolori”. Ora i foreign fighters, dai 125 dell’edizione in italiano, del giugno 2018, sono diventati 138. Di questi, 11 sono tornati in Italia, tre sono in carcere e otto sono attivamente monitorati dalle autorità di pubblica sicurezza. Per ora, spiega l’esperto, la situazione italiana è relativamente tranquilla, ma alcuni indicatori fanno pensare che la Penisola si stia avvicinando “alla situazione problematica di altri Paesi, anche se, in virtù della storia del nostro Paese che ha vissuto gli Anni di Piombo e la lotta alla grande criminalità organizzata, quello italiano rimane “un sistema antiterrorismo molto coordinato”.

La repressione non basta

“Se l’aspetto repressivo va molto bene – continua il ricercatore – visto che siamo l’unico grande Paese occidentale che non ha mai subito un attacco sul suo territorio dall’11 settembre, nel Nord Europa, da anni e talora da decenni, esistono politiche di deradicalizzazione“, condotte con le scuole e le comunità islamiche, che si affiancano, senza sostituirvisi, all’azione repressiva”. Su questo aspetto – mette in guardia Marone – invece l’Italia non ha una strategia nazionale”. E “molti esperti consigliano di prepararsi a una situazione che potrebbe essere meno positiva nei prossimi anni”.

Il rischio di reclutamento jihadista

Il tema demografico, premette Marone, è “molto scivoloso”, perché si presta a strumentalizzazioni politiche, ma, “senza generalizzare, è un fatto: in Francia lo si vede benissimo, le seconde generazioni sono più a rischio della prima e della terza. In Italia le seconde generazioni adulte sono ancora poche e quella è la fascia più pericolosa: abbiamo una grossa prima generazione, mentre la seconda sta diventando adulta adesso”. E infatti, prosegue Marone, alcuni degli jihadisti italiani sono “figli di migranti, come avviene all’estero, che spesso contestano i genitori, perché li considerano troppo integrati”. D’altra parte, spiega, il migrante “non ha il tempo per elaborare questioni di identità, perché deve lavorare per guadagnarsi da vivere”. E’ invece il figlio che “comincia, avendo di che vivere, a porsi problemi di identità”. E spesso sono ragazzi “un po’ in bilico tra Paese di origine della famiglia e quello di destinazione”. A volte questa “doppia appartenenza” – spiega l’esperto – può trovare una “soluzione” in una “visione in bianco e nero, con l’Islam contro l’Occidente”. Una situazione in cui l’integrazione è “complicata”, in “alcuni può scatenare la possibilità di aderire” a ideologie radicali, con un incontro tra una “domanda di frustrazione” e “l’offerta organizzativa” del messaggio jihadista. “Sappiamo di alcuni foreign fighters, addirittura italiani convertiti, che si vantavano di essere discriminati nel loro Paese”, sottolinea. E in “alcune” persone, una “piccola minoranza”, questo senso di discriminazione, conclude, “trova una risposta potenzialmente attraente nel messaggio jihadista”.

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