Italo Bocchino: Tatarella, un uomo complesso, conservatore e modernista

8 Feb 2019 6:02 - di Italo Bocchino

La scomparsa di Giuseppe Tatarella, avvenuta venti anni fa, è stato il momento più traumatico della storia della destra italiana di governo. La sua morte, improvvisa e drammatica, ha dato avvio ad un processo di avvitamento che in dieci anni ha disperso un mondo solido, finito nei tanti rivoli del centrodestra nonché nel voto di protesta rappresentato dall’astensionismo e dal voto al Movimento 5 Stelle.

Tatarella era un uomo complesso e poliedrico. Chi lo ha conosciuto nelle pieghe del suo carattere, del suo umore e dei suoi sentimenti sa che l’uomo era molto diverso da come si rappresentava nelle vesti di politico. Sembrerà un ossimoro, ma la base della sua struttura culturale e politica era contemporaneamente conservatrice e modernista. Era un colto conservatore (in gioventù fu avido lettore di Giuseppe Prezzolini), riteneva che la società per funzionare al meglio dovesse restare ancorata alla sua storia, alle tradizioni secolari di un popolo che affondava le radici in tempi molto anteriori alla nascita dell’Italia. Il suo conservatorismo era così forte che spesso sfociava nel patriottismo. Pochi sanno che nel 1987, quando iniziò la stagione congressuale che portò Gianfranco Fini a sostituire Giorgio Almirante, di cui Tatarella fu ideatore e protagonista, volle che il primo congresso provinciale si tenesse a Trieste, perché era convinto di vincerlo con la sua mozione “Destra in movimento” (condivisa con Luciano Laffranco, Ugo Martinat e i più giovani Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri), cosa che avvenne. A Gasparri che gli chiedeva conto di questa scelta rispose che vincere a Trieste era di buon auspicio perché in Italia ancora si pensava che quello triestino fosse un fronte aperto per difendere la Patria.

Un altro episodio patriottico di Tatarella, che nessuno ormai ricorda più, risale al 20 novembre 1991 e che stride con la figura di moderato che gli valse il titolo di “ministro dell’Armonia”. Quel giorno la Camera discuteva i provvedimenti di attuazione a favore dell’Alto Adige e l’esponente della SVP, Johann Benedikter, contestava l’italianità di quelle terre svillaneggiando il sacrificio umano dei soldati che le avevano conquistate. Tatarella si recò al banco del collega, gli strappò dalle mani i fogli dell’intervento scritto e ne fece coriandoli. Quest’ultimo episodio fa emergere un’altra peculiarità della personalità di Giuseppe Tatarella, che potremmo definire un “estremista moderato”. Nel suo intimo il politico pugliese era un estremista senza se e senza ma (ne sanno qualcosa i suoi sodali di sempre), però abbracciò il moderatismo per convinzione. All’interno dei suoi partiti, sia nel MSI sia in Alleanza Nazionale, spesso lo si criticava accusandolo di essere un notabile meridionale di stampo democristiano, eccessivamente moderato in un mondo reazionario, pronto a mediare all’infinito e a fare accordi anche trasversali. In realtà lui era più estremista di chi lo criticava, ma era stanco di vedere la destra nel ghetto dell’opposizione e voleva portarla al governo.

Miscelata al suo conservatorismo c’era però anche la sua anima modernista. Era curioso di tutto ciò che rappresentava la modernità, il cambiamento, il nuovo, l’abbandono delle zavorre. Quando nel 1994 Massimo D’Alema e Walter Veltroni si sfidarono per la segreteria del PDS e decisero di fare le primarie via fax, Tatarella alla domanda di un giornalista che gli chiedeva un parere rispose schietto e sicuro: “sono veltroniano”. Pur essendo amico personale di D’Alema e non conoscendo Veltroni si era buttato subito dalla parte della modernità, avendo capito che quel “popolo dei fax” era la prima avvisaglia, addirittura proveniente da sinistra, di una democrazia diretta che era alle porte, che lui anelava e che avrebbe portato la destra al governo. La sua capacità di dialogo e la ricerca costante, spasmodica ed ossessiva dell’armonia lo portava a costruire rapporti politici solidi e complici. Gli esempi più significativi sono rappresentati dalle liaison con Gianfranco Fini e Sergio Mattarella.

Tatarella e Fini erano due personalità diametralmente opposte. Per spiegare la sua diversità dal leader del partito e la non subalternità allo stesso fece due affermazioni simpatiche, ma non banali. A Carlo Fusi del “Messaggero” disse che “la differenza tra me e Fini è che lui beve lo champagne e io la gazzosa”, sottolineando le differenze di origini territoriali e di carattere. Tatarella amava le sezioni e il territorio, non amava stare a casa, aveva un tratto popolare che lo spingeva a passare pomeriggi interi a giocare a carte in un bar con i pescatori di Bari vecchia. Fini era nordico di provenienza e di temperamento e questa differenza così marcata fu la fortuna della coppia, che assieme riuscì a cambiare le sorti della destra italiana. A Tatarella va riconosciuta l’ideazione della svolta di Fiuggi, che aveva tentato anche precedentemente con la nascita del “Fronte degli Italiani”, e la nascita della Casa delle Libertà nata dalla sconfitta elettorale del 2006, quando Romano Prodi tornò alla guida del governo. Il “ministro dell’Armonia” non si rassegnava a stare all’opposizione e capì che per tornare a vincere serviva un’operazione di allargamento che portasse il centrodestra fuori dallo schema Berlusconi-Fini-Bossi-Casini. Pensò quindi alla Casa delle Libertà per coinvolgere “tutti gli italiani non di sinistra”, convinto che fossero il 65% dell’elettorato. Parlò con Paolo Cirino Pomicino per avere gli ex democristiani, con Gianni De Michelis e Stefano Caldoro per avere gli ex socialisti, con Giorgio La Malfa per avere gli ex repubblicani, con Gaetano Gorgoni per coinvolgere gli ex socialdemocratici e con Egidio Sterpa per avere a bordo anche i liberali. Sembrava un’operazione reducista, ma ancora una volta ebbe ragione, anche se non riuscì a vedere la vittoria del 2001 e il ritorno del centrodestra al governo, che si allargò al Nuovo PSI, al Partito Repubblicano e alla Democrazia Cristiana per le autonomie.

La sua autorevolezza parlamentare è confermata dal rapporto che costruì con l’attuale presidente del-la Repubblica Sergio Mattarella. Nella legislatura dal 1992 al 1994 Tatarella era capogruppo del MSI, ancora all’opposizione, e Mattarella era capogruppo del Partito Popolare italiano, ovviamente in maggioranza. I due costruirono un rapporto di amicizia e collaborazione franco e produttivo. Fecero assieme il “Mattarellum” che introduce il maggioritario uninominale dopo i referendum e il “Tatarellum”, legge elettorale per le regioni che è ancora in funzione. Il suo capolavoro di levantinismo orientato alla conquista del governo lo fece proprio con il “Mattarellum”. Il suo partito era contrario alla nuova legge elettorale, ma lui andò avanti a prescindere, certo che il superamento del proporzionale avrebbe mischiato le carte e liberato l’elettorato di destra che votava DC. I deputati del suo gruppo votarono contro il “Mattarellum”, ma lui contribuì a scriverlo con Sergio Mattarella e al momento del voto si astenne, creando il caso senza precedenti di un capogruppo che vota in dissenso dal gruppo che presiede. Un dissenso previgente con cui portò la destra al governo. Quando gli chiedemmo spiegazioni di questa stranezza, rispose con poche parole che dicono tutto di lui: “a volte agli amici bisogna far del bene senza comunicarlo, perché altrimenti te lo impediscono. Non lo sanno ancora, ma stiamo andando tutti al governo”.

Testo tratto dal libro “Pinuccio Tatarella – passione e intelligenza al servizio dell’Italia”, edito da “Giubilei Regnani”.
Link per l’acquisto del libro: http://www.giubileiregnani.com/libri/pinuccio-tatarella/

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