Di Maio sul patibolo. Il dissenso interno all’assalto. Ma Casaleggio lo blinda
«La leadership di Luigi Di Maio certamente va rimessa in discussione». Quando la senatrice Paola Nugnes ha voluto aprire il processo al capo politico del M5S le sezioni effettivamente scrutinate in Sardegna non ancora neanche 10 su 1840. Certo, c’erano gli exit poll che già parlavano di una debacle. Ma una presa di posizione di quel tipo e con quei tempi denuncia che, magari, in casa pentastellata c’era qualcuno che non aspettava altro. Il pretesto, quello non opinabile, per tentare un blitz a lungo covato.
«Da tempo non condivido la linea politica intrapresa e le strategie messe in atto. Se ora, oltre i sondaggi, abbiamo anche verificato con elezioni regionali, che per quanto di altro livello, ci danno il polso di una indubbia e incontestabile perdita di consensi, credo che andrebbe rimessa la palla al centro», ha aggiunto la Nugnes, sottolineando di non credere «che una riorganizzazione calata dall’alto sia la soluzione. Ci vuole una riflessione collettiva che porti ad una discussione profonda con proposte da valutare tutti insieme». Il problema si era già posto dopo il voto in Abruzzo. E proprio allora, dopo due giorni di silenzio e ritiro spirituale, Di Maio aveva recuperato la parola per illustrare il suo piano di rilancio del partito sui territori. Un piano che, come da frecciata di oggi della Nugnes, era però tutto calato dall’alto.
Dunque, l’ala sinistra del M5S, cui Nugnes dà voce, approfitta della nuova sconfitta per dire a Di Maio che non è disposta a fare apertura di credito. Che non c’è riorganizzazione che possa tenere. Che il problema è lui, con la fisionomia che ha voluto dare al partito. «Dico solo viva la democrazia… Si dà il mandato per cinque anni a chi vince le elezioni. E poi si rivedrà», è stato invece il commento del presidente della Camera Roberto Fico, leader dell’ala antigovernativa, che a chi gli chiedeva un commento sulle fibrillazioni interne al M5s ha offerto un no comment di fatto e non un tentativo di minimizzare, che per altro sarebbe risultato anche poco credibile. Lo stesso candidato alle regionali, Francesco Desogus, pur tentando, non è riuscito a nascondere il malcontento. E alla fine l’indice ha puntato sempre lì: contro Giggino, che con Desogus non ha neanche parlato al telefono nella lunga notte post elettorale. «Lui non l’ho sentito ma alcune persone del suo staff mi hanno chiamato ieri notte», ha detto il candidato del M5S, ricordando «le richieste di presenza a Roma le abbiamo fatte, non è che non sia venuto nessuno. Giulia Grillo, Toninelli, Bonisoli, Lezzi, anche Conte… Se questo viene rapportato a Salvini c’è una differenza. Nonostante sia ministro dell’Interno, nell’ultima settimana Salvini ha passato più giorni in Sardegna che al ministero. Di Maio è ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, vicepremier e capo politico: ha già tanti impegni».
Di Maio però non sembra crucciarsene. E, d’altra parte, il suo destino di capo politico non è né nelle mani di Nugnes, né in quelle di Fico, né tanto meno in quelle degli attivisti che fanno la base o all’occorrenza anche i candidati alla presidenza di Regioni. Di Maio fa il capo finché va bene alla Casaleggio & co. E alla Casaleggio & co, per ora, non sembrano disposti a destituirlo. «Il M5S è vivo e vegeto e va avanti, in regione Sardegna come a livello nazionale. Io non vedo nessun problema, per il governo non cambia niente: è al lavoro sui dossier più importanti», ha commentato Di Maio, annunciando che «andremo avanti con la riorganizzazione e tra domani e dopodomani ci saranno novità importanti per il Movimento». «La riorganizzazione ci aiuterà ad essere più capillare a rispondere alle esigenze dei cittadini», ha aggiunto Di Maio, ricalcando di fatto quanto annunciato dopo la sconfitta abruzzese. «Bisognerà iniziare in maniera sperimentale. La cosa importante è che se ne discuta prima di tutto con i nostri iscritti», ha proseguito il vicepremier, facendo riferimento al referendum in preparazione su Rousseau e chiudendo il caso. Almeno fino al prossimo incidente. Almeno fino a quando chi gestisce davvero Rousseau non deciderà di fare un “referendum” anche su di lui.