Processo Cavallini: le nuove “supertesti” non ricordano nulla o poco e male
Riceviamo da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo:
Caro direttore,
Udienza difficile, molto difficile, quella di oggi per il presidente della Corte e per le parti civili, al processo contro Gilberto Cavallini. In agenda, le testimonianze di due donne, Paola Mannocci e Mirella Cuoghi. La prima, è la figlia di genitori rimasti vittime dell’attentato del 2 agosto (la madre perse la vita, il padre sopravvisse, ma restò invalido); la seconda, è una donna che rimase ferita, trovandosi al momento dello scoppio nel piazzale della stazione. Entrambe non erano mai state chiamate a deporre nei tanti processi precedenti e l’interesse per la loro audizione – richiesta espressamente dal presidente della Corte d’Assise, Michele Leoni, evidentemente colpito da quel testo, in verità alquanto mediocre – nasce certamente dalle parole, in parte loro, in parte dei documenti e dell’autore stesso, riportate in <Tutta un’altra strage>, edito da Rizzoli nel 2007. Nelle prime pagine di quel volume, infatti, si lascia intendere come la Mannocci avrebbe potuto aver ricevuto confidenze dal padre, nel frattempo morto, che specificassero meglio il vago ricordo circa <due loschi figuri> che l’uomo avrebbe visto aggirarsi dalle parti della sala d’aspetto del terminal ferroviario bolognese poco prima dell’esplosione della bomba.
Circostanza vagheggiata nel verbale di sommarie informazioni raccolto dalla Polizia poche ore dopo il fatto, ma poi mai approfondito successivamente. La Cuoghi, invece, viene presentata nel libro di Riccardo Bocca come una vittima che avrebbe successivamente riconosciuto in Francesca Mambro una ragazza notata poco prima dell’attentato, sdraiata nella grande aiuola antistante la stazione e vestita <da tirolese>. Circostanza, quest’ultima, che suonerebbe come una conferma di ciò che raccontò agli investigatori Massimo Sparti, il grande accusatore di Valerio Fioravanti. Insomma, uno “scoop” editoriale di qualche anno or sono che avrebbe potuto – e forse dovuto, nelle intenzioni di chi le ha volute ascoltare – colmare le lacune investigative dei decenni precedenti. Alla prova dei fatti, però, le cose sono risultate alquanto diverse. L’interrogatorio della Mannocci è durato, infatti, poco più di un minuto: il tempo necessario per smentire categoricamente che lei sapesse qualcosa di sconosciuto sulla strage o che il padre le avesse fatto chissà quale rivelazione su quella tragica giornata.
La Mannocci ha negato tutto, smentendo, implicitamente, le tesi di Bocca. Più complicata, invece, la testimonianza della Cuoghi, spesso interrotta da momenti di comprensibile emozione, nel ricordare quei tragici istanti da lei personalmente vissuti, in cui ha ribadito di ricordare una ragazza vestita con scarpe e calze pesanti, non ostante il gran caldo della mattinata; con addosso una maglietta bianca che ne evidenziava un seno generoso e appisolata nei giardinetti della stazione. Ragazza che, quando le sarebbero state mostrate <otto fotografie> di donne in un interrogatorio del 1983, avrebbe riconosciuto come somigliante a quella che ritraeva Francesca Mambro. Per altro, la Cuoghi ha aggiunto che quella ragazza che vide in stazione era vicina ad altri, che sarebbero stati in piedi, vestiti bizzarramente alla stessa maniera, senza, però, ricordarne le fattezze. Tanto da ricordare come, nel sopracitato interrogatorio, mentre le furono mostrate <otto foto di donne>, non le furono mostrate foto di uomini da riconoscere. Particolare importante: la Cuoghi avrebbe raccontato tutto ciò solo nel 1983 e non prima, in quanto il particolare delle persone vestite <neanche da tedeschi> – è questa l’espressione, a suo dire dialettale-modenese, che avrebbe usato con la figlia quel fatidico 2 agosto, quando notò i giovani con le scarpe e le calze pesanti -, le sarebbe tornato alla memoria solo in un secondo momento, quando, frequentando l’Associazione familiari delle vittime, sentì parlare del fatto che, forse, gli attentatori, erano vestiti da tedeschi. Ora, al di là del fatto che, prendendo per buono tutto ciò che allora e ora la Cuoghi dice di ricordare – va tenuto presente che, dopo l’esplosione, fu ricoverato in forte stato di shock -, è improbabile che abbia visto gli attentatori: la ragazza da lei notata era sdraiata e sonnecchiante davanti alla stazione non più di dieci minuti prima dell’esplosione e ciò non sarebbe potuto essere, se la stessa avesse collocato scientemente un ordigno destinato a esplodere da un momento all’altro.
Chiunque sia stato a collocare quella bomba, una volta depositata la valigia nella sala d’aspetto, ha certamente tagliato la corda senza nemmeno voltarsi indietro. Andando a fondo, però, nelle sue parole sono troppe le cose che non tornano, per non pensare che la Cuoghi abbia – come è umano che accada – sovrapposto ricordi di varia natura e particolari magari appresi dalla stampa nei giorni e nei mesi successivi. Sopra a tutto, i ricordi di oggi e quelli del 2007 raccolti nel libro di Bocca non coincidono con quanto dichiarato nel 1983 e cristallizzato in un verbale sottoscritto da ben quattro magistrati, circa il presunto riconoscimento della Mambro. Alla Cuoghi, infatti, non vennero mostrate <otto fotografie di donne> – foto che, come ha ripetuto lei, anche con eloquente gestualità, sarebbero state grandi poco più di foto tessera -, tra le quali anche una della Mambro, bensì le fu mostrata solo la foto della Mambro. Le fu mostrata dai giudici solo la foto della Mambro, chiedendole se fosse la ragazza da lei notata e la Cuoghi rispose, per, non di sì, ma che gli assomigliava.
Inoltre, sempre dal verbale redatto dai giudici dell’epoca – Zincani, Dardani, Luzza e Castaldo -, risulta che alla donna fu mostrata anche la foto di Fioravanti – quindi, foto di uomini, contrariamente a quanto ricorda adesso – che, però, non riconobbe come uno dei ragazzi notati il 2 agosto. Infine, sempre da quel verbale, non risulta affatto che lei vide delle foto singole, sparse, bensì i ritratti dell’”Album fotografico” dei latitanti e dei pregiudicati dell’area dell’eversione di destra e, precisamente, le foto n° 11 e 12 che, presumibilmente, si trovano affiancate nel medesimo catalogo. In altre parole, un riconoscimento e una testimonianza talmente fragili e dalle modalità poco ortodosse che ben spiega perché i pubblici ministeri e i giudici dei precedenti processi li abbiano accantonati. Suggestioni editoriali, insomma, ma nulla che possa aver valore in un’aula di tribunale. Tra le due donne, poi, è stato sentito Roberto Romano, amico e “camerata” di Gilberto Cavallini nella seconda metà degli anni ’70 a Padova. Ascoltato su richiesta dei difensori per confermare o smentire la testimonianza di Gianluigi Napoli, ha chiarito alla Corte quanto poco siano credibili le parole del “pentito”, per altro già pesantemente valutato negativamente dalla stessa magistratura negli anni e in procedimenti precedenti.