Pollock a Roma, quando l’arte è libertà per l’uomo e gioco per i bambini
«Lo vuoi capire o no? Io sono venuta qui solo per Rotkho, gli altri manco li voglio vedere!». Nel ventre oscuro dell’immenso Vittoriano si consuma una minuscola scena di vita matrimoniale nella quale, come spesso accade nella vita di coppia, una gentile signora se la prende in automatico con il povero marito che cerca faticosamente di risalire le scale verso il piano superiore. L’uomo è “colpevole” di voler dare una sbirciatina al capolavoro dalla mostra, il “Number 27” del grande e più noto Jackson Pollock: lei no, è soddisfatta così, vuole andare a casa, ha visto Rothko, può bastare così. Un aneddoto alla Sandra e Raimondo che depone a favore dell’esposizione in corso a Roma, “Pollock e la scuola di New York” (fino al 24 febbraio, a cura di Luca Beatrice) perché quando una mostra riesce ad andare oltre il suo baricentro artistico, motivando i visitatori alla scoperta del “secondario” in ogni angolo delle sale, l’obiettivo di costruire un filo logico e culturale che vada oltre la valorizzazione del quadro “star” può dirsi raggiunto.
Nel caso specifico, l’imponente “Number 27” di Jackson Pollock, attrazione di una mostra accusata dai più esigenti di avere “pochi quadri” (cinquanta le opere, comprese quelli di Mark Rothko, Willem de Kooning, Franz Kline e altri rappresentati della Scuola di New York) in realtà si può rapidamente archiviare alla seconda curva del percorso per passare oltre e stupirsi immergendosi in un’era di libertà espressiva assoluta, quella dell’espressionismo americano a cavallo del secondo dopoguerra, nel segno dell’arte “corporale”, dell’astrattismo, del cubismo, del delirio dei colori. «La nuova pittura ha abbattuto ogni distinzione tra arte e vita”, è la sintesi del critico americano Harold Rosenberg. L’arte propone, la mostra abbatte anche gli steccati con i bambini grazie al tunnel sensoriale, al divanetto su cui stendersi per osservare dal basso Pollock schizzare, “sgocciolare” e versare colori sulla tela nella trasparenza di un vetro, come per una notte stellata vangoghiana, fino all’esercizio di pittura con l'”action painting” virtuale regalato a fine mostra alle mani dei ragazzini, senza l’incubo della macchia per le mamme e dei papà al seguito.
Le opere di Pollock, provenienti dalla collezione del Whitney Museum di New York, fanno esse stesse da sfondo alla cronaca di una coppia bella e tormentata grazie alla voce narrante della moglie di Pollock, Lee Krasner, anche lei pittrice di talento, costretta ad assistere al declino dell’artista californiano, morto per un incidente d’auto causato dal suo vizio di bere. Come James Dean, un anno prima di lui, da vero artista maledetto. E forse non è un caso visto che la ricerca di libertà, per i maestri della scuola di New York, era un sentiero tortuoso e scivoloso, come i loro tratti cromatici: «L’arte non mi appare mai come qualcosa di sereno o di puro. Mi sembra sempre di essere avviluppato nel melodramma della volgarità. Non penso all’arte come una situazione di comfort…», era il pensiero di de Kooning, il geniale olandese eternamente ubriaco di vita e di alcol. Come Pollock, come Rotkho, morto suicida, solo, ma da vivo.