Strage di Bologna: solo congetture politiche sui nomi dei mandanti

24 Lug 2018 17:01 - di Massimiliano Mazzanti

Riceviamo da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo:

Caro direttore,

Pare che la calura d’agosto abbia giocato un brutto scherzo al Resto del Carlino che, questa mattina, in prima pagina, annunciava l’iscrizione nel registro degli indagati dei primi nomi nell’inchiesta, condotta a latere del processo aperto a carico di Gilberto Cavallini, per la ricerca dei mandanti della strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. Il procuratore generale della Repubblica, Ignazio De Francisci, infatti, ha laconicamente commentato la notizia con un telegrafico: “Smentisco tutto”. Dunque, il fascicolo – che la procura ordinaria avrebbe voluto archiviare già mesi or sono e che la procura generale aveva avocato – resta per ora contro ignoti. Cosa ci sia in quelle carte, per altro, è noto: una serie di congetture elaborate dall’ex-parlamentare del Pd Paolo Bolognesi e dai consulenti legali dell’Associazione familiari e vittime del 2 agosto e, sopra a tutto, un appunto riferibile a Licio Gelli – giornalisticamente definito “pizzino”, per rendere il foglio più appetibile per l’opinione pubblica – in cui sotto la dicitura “Bologna” compaiono delle cifre che riporterebbero a un conto svizzero del fu “venerabile gran maestro” della P2 e altri appunti in codice. Elementi che, secondo Bolognesi, chiarirebbero chi ha pagato per eseguire la strage e chi avrebbe intascato i soldi, dopo averla eseguita. In verità, nelle fantasie giudiziarie di Bolognesi c’è – o ci deve essere – molto di più da ricavare da quello scarno appunto. Non è un mistero che Bolognesi sia convinto che sia stato Gelli a finanziare l’attentato e che a eseguirlo siano stati Francesca Mambro, Valerio Fioravanti e Luigi Ciavardini, insieme col Cavallini. E ne è convinto non ostante quello stesso appunto di cui sopra non dica niente di più dell’esistenza (forse) di un conto in Svizzera, dove, per altro, Gelli si trovava spesso per i suoi affari, puliti o loschi che fossero; e ne è convinto non ostante gli “autori” individuati processualmente per tali siano nelle mani dello Stato, rispettivamente, dal 1982, dal 1981, dal 1980 e dal 1983 e, pur processati e “rivoltati come guanti” innumerevoli volte non sono mai stati trovati in possesso di cifre – in contanti, in banche italiane o estere, oppure chissà dove – che giustifichino anche solo teoricamente tali ipotesi. Ed è probabilmente per queste ragioni che la Procura generale, per quanto abbia “stoppato” l’archiviazione richiesta dalla Procura ordinaria, si muove con estrema cautela. Senza contare, poi, che, giudiziariamente parlando, questa indagine risente ancor più del processo contro Cavallini delle insidie del tempo: i Nar, com’è noto, erano un gruppo di “ragazzini” e oggi, per quanto attempati, sono almeno vivi; dei presunti “mandanti”, a partire da Licio Gelli, è presumibile che nessuno calpesti più la terra: qualcuno vuol portare alla sbarra una fila di cadaveri? Oppure, come per altro è già successo, c’è chi veramente pensa di imbastire un dibattimento conducendo in tribunale impiegati, dipendenti, amici o frequentatori dei possibili imputati morti, magari per far raccontare loro di aver sentito dire questa o la talaltra cosa? La storia degli “anni di piombo” non è già sufficientemente costellata di inchieste e sentenze che non rendono onore alla magistratura italiana? C’è ancora bisogno realmente di processi che non renderebbero giustizia – per come si annunciano – né alle vittime del terrorismo né alla coscienza civile del Paese?

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