Strage di Bologna, nuove perizie: ma chi garantisce l’integrità delle prove?
Riceviamo da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo:
Caro direttore,
Circa la perizia disposta dal presidente della Corte d’Assise di Bologna, Michele Leoni, al fine di chiarire ciò che potrebbe essere ancora chiarito sulla natura dell’esplosivo che devastò la stazione di Bologna il 2 agosto 1980, si hanno due certezze. La prima, positiva, è che Danilo Coppe, il super-esperto investito del caso, è veramente un professionista di altissimo livello e di sicura affidabilità, dimostrata in tanti casi precedenti in cui è stato chiamato a esprimere il suo talento. L’altra, negativa, è che lo stesso Stato che pretende di perseguire ab eaterno determinati reati (il che sarebbe pure giusto, almeno nei casi di strage!), non è, però, capace di conservare e tutelare come si dovrebbe prove e reperti dei crimini, neanche di quelli irrisolti o parzialmente irrisolti. Ciò premesso, solleva infatti parecchi dubbi la notizia sulla possibilità di fornire a Coppe materiali di cui è impossibile garantire provenienza, “originalità” e stato di conservazione. Sicuramente, il perito terrà conto di questo stato di cose, ma è curioso come oggi si dia grande rilevanza al fatto che le “macerie della stazione” siano ancora conservate in un’ex-caserma militare. Caserma che è stata oggetto di svariati passaggi di mano tra enti con questi reperti lasciati incustoditi a terra e divenuti parte del paesaggio per l’espandersi della vegetazione. O, ancora, che alcuni “parenti delle vittime” – che sono parte in causa in questo processo – sarebbero in grado di consegnare al perito oggetti e vestiti indossati quel tragico, ma ormai lontano giorno. Contrariamente alla “vulgata” che si è costruita intorno alla “strage di Bologna”, secondo cui i “depistaggi” emersi nei precedenti processi erano tesi a scagionare gli imputati, è ben noto come “apparati dello Stato” abbiano agito fuori da ogni norma per rafforzare il teorema indiziario che portò alla condanna di tre dei quattro imputati per quel delitto esecrando; dunque, ammettere nel processo materiale che nessuno potrebbe più giurare di non aver manomesso in alcun modo, neanche involontariamente, sembra azione destinata solo ed esclusivamente ad annebbiare anche questo capitolo dell’interminabile “querelle” giudiziaria. Quindi, che senso può avere, tutto ciò, nella determinazione delle personali responsabilità di Gilberto Cavallini nella vicenda? È chiaro: oggi è di moda risolvere o provare a risolvere i così detti “cold-case”, utilizzando ora metodologie scientifiche un tempo sconosciute; però, perché ciò abbia un’efficacia processuale, è assolutamente necessario garantire l’integrità degli indizi e dei reperti; altrimenti, perizie e dibattimento non trasformeranno tutto ciò in prove – a carico o discarico, qui poco importa -, ma solo in altri e stucchevoli elementi d’infinita polemica.