Processo Cavallini tra teoremi e “suggestioni”. Le parole della Mambro
Riceviamo da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo:
Caro direttore,
Che la giornata di ieri sarebbe stata alquanto complicata, al processo a carico di Gilberto Cavallini per la strage di Bologna, lo si è capito quasi subito, quando Antonello Gustapane, uno dei tre pubblici ministeri incaricati di rappresentare l’accusa, ha chiesto a Francesca Mambro, tra le primissime domande del lungo esame testimoniale che terminerà mercoledì prossimo, con chi fosse “fidanzata” prima di intrecciare la relazione sentimentale con Giusva Fioravanti. È facile immaginare la ventata di ilarità che ha pervaso l’aula e lo sconcerto della Corte d’Assise che, raccogliendo immediatamente l’opposizione della legale della Mambro, Ambra Giovene, ha bruscamente interrotto il “pm”, chiedendosi quale interesse avrebbe mai potuto avere un particolare del genere. D’altronde, il lavoro dell’accusa, in questo processo, non è semplice. L’unica domanda di una certa rilevanza – quella tesa a capire se la teste ricordasse dove avesse dormito Luigi Ciavardini la notte antecedente il 2 agosto – è stata formulata quando l’orologio segnava quasi le 16 e, essendo iniziato il processo alle 10, si può ben capire quale sia il ritmo e la logica del procedimento. Ed è su quest’ultimo aspetto – la logica del procedimento o, quanto meno, l’apparente logica degli inquirenti – che è bene soffermarsi, rilevando come, per quasi un’ora, da quando la Mambro si è seduta sulla sedia dei testi, Gustapane le ha chiesto di confermare, reato per reato, le proprie responsabilità in merito a una lunga sequela di azioni terroristiche dei Nar. La Mambro – con una compostezza e una calma che ha certamente colpito gli astanti – non ha avuto difficoltà nel ripetere, a ciascuna domanda, che si assumeva la responsabilità politica e morale dei crimini che commise quando era poco più di un’adolescente, rilevando, però, come tutto ciò che le veniva chiesto fosse cristallizzato nelle tante sentenze passate in giudicato che hanno riguardato la tragica vicenda dei Nar. Perché, quindi, tanta pedanteria? Chiaramente, la logica accusatoria è quella della “mostrificazione”, cioè, il tentativo di impressionare la Corte e in particolare i “giudici popolari”, sottolineando l’elevata “capacità criminale” dei Nar e dei suoi componenti, per giungere a una sentenza di condanna sul fatto specifico – il “concorso” di Cavallini alla strage di Bologna – per una sorta di mero “sillogismo aristotelico”: ne hanno combinate tante, avranno messo anche la bomba. La Mambro, però, non è caduta in questa trappola procedurale e, anzi, ha colto l’occasione per chiarire, a beneficio dei presenti, la reale natura di quel che fu lo “spontaneismo armato”, quel peculiare fenomeno degli “anni di piombo” che coinvolse essenzialmente la giovane destra romana. In primo luogo, rimarcando la differenza che esistette tra loro – i Nar – e i precedenti gruppi dell’“eversione nera” e, cioè, la provenienza missina sua e di quasi tutti gli appartenenti al gruppo. Militanti che – tra il ’73 e il ’78, dal rogo di Primavalle alla strage di Acca Larentia – si sentirono giorno dopo giorno “carne da macello”, esposti alla più brutale violenza comunista a cui, per altro, si aggiunse la consapevolezza di essere perseguitati dal sistema mediatico e, alla fine, con l’uccisione di Stefano Recchioni, anche dal “sistema istituzionale”. Gustapane ha cercato più volte d’interrompere la Mambro in questa sua ricostruzione dell’iter che generò lo “spontaneismo”, per altro storicamente fedele, ma ha trovato sempre la ferma opposizione del presidente della Corte, Michele Leoni, al quale, invece, è sembrato utile, evidentemente ai fini processuali, comprendere questi meccanismi di cui tanti, anche i membri della giuria, hanno per lo meno perso memoria. “Ci siamo armati per difenderci”, ha ricordato la Mambro, evidenziando come, a proposito delle prime rapine che compì assieme a Giusva, “nessuno li riforniva di armi dall’est” come accadeva con le Br e le altre sigle del “terrorismo comunista”.Un’assunzione di responsabilità, insomma, quella della Mambro, accompagnata, però, dalla spiegazione necessaria del clima e della situazione politica degli anni ’70, in particolare della seconda metà di quel decennio, che vide i militanti della Destra “parlamentare” sotto durissimo attacco, nella sensazione, per di più, che il “partito li avesse abbandonati a se stessi” o che comunque non fosse in grado di difenderne più nemmeno l’incolumità personale. Sopra ogni cosa, la Mambro ha negato e respinto ogni tentativo di accostare la loro drammatica esperienza ai teoremi che vorrebbero i Nar “longa manus” di chissà quale organizzazione o gruppo di organizzazioni legate ai “servizi segreti” o a “centrali di potere”. E questi passaggi, sono stati diversi, ieri nella deposizione della Mambro, a ben vedere avvalorano la sincerità della sua attuale testimonianza. Infatti, conoscendo l’impianto del processo e volendo attestarsi su una linea di mera difesa processuale, la Mambro non avrebbe pronunciato queste parole che potrebbe offrire ai “pm” una conferma alla loro tesi – secondo la quale, i Nar erano un gruppo indipendente e capace di ideare e portare a compimento un evento come quello della strage alla stazione -, tesi che, però, è diametralmente opposta a quella delle parti civili, quelle che questo processo hanno fortemente voluto e che, mediante la condanna di Cavallini, pretenderebbero che si dimostrasse come l’imputato, Fioravanti e gli altri avessero agito su input di Licio Gelli e dei “sevizi deviati”. E qui si torna all’equivoco di cui si è già detto precedentemente, nel corso di questa corrispondenza, poiché i pubblici ministeri, i quali hanno già dichiarato con atti formali di non credere alla tesi della parte civile, non avendo, però, elementi processualmente concreti per “inchiodare” Cavallini alla strage, devono far ricorso allo stesso strumento – il “teorema” – caro alla stessa “parte civile”; a quella “suggestione” storico-politica con cui, da 38 anni, si tenta di colmare la vistosa carenza d’indizi di colpevolezza e la mancanza assoluta di prove a carico non solo dell’attuale imputato, ma anche deglistessi “condannati in via definitiva”. Infine, è da rilevare come, oggi al pari del passato, il sistema mediatico non manchi di dare il suo apporto a questa che si è definita “suggestione”, amplificando e cercando di screditare le testimonianze degli ex-Nar non sui contenuti essenziali delle loro deposizioni, bensì sull’uso, magari improprio, di certe espressioni: nel caso di Ciavardini, l’essersi definito l’86esima vittima della strage; ieri, a proposito della Mambro, l’aver detto di sentirsi “una deportata” ogni qual volta viene chiamata in tribunale a Bologna. Operazione insistita, questa della stampa, a cui non ha mancato di dare un apporto il presidente dell’associazione delle vittime, il quale si è lamentato del “trattamento da star” riservato da fotografi e giornalisti alla Mambro. Atteggiamento, quello dei media, che a tutti può essere imputato tranne che alla Mambro, la quale, oltre che costretta dalla legge a venire a Bologna, ha tentato in tutti i modi di sottrarsi alla morbosa curiosità degli operatori televisivi e fotografici, i quali, però, erano appostati a ogni angolo del palazzo di giustizia.
Tutta roba italiota, alla quale purtroppo “siamo obbligati” ad abituarci. Tristezza.
Lo sanno tutti che la “bomba” era in realtà una valigia contenente esplosivo, che un palestinese voleva portare in Germania per fare attentati. Tutto ciò avveniva con il beneplacito dei “servizi” italiani che, per tacito accordo, lasciavano correre. Si sono ignorate e fatte sparire prove come i resti della valigia e del corpo della vera 86esima vittima: il palestinese. Perché allora continuare nella farsa? Per ragioni “istituzionali”: si è condannato molta gente con prove artefatte, c’è gente, come le associazioni parenti delle vittime, che ci mangiano sopra da 38 anni e poi, lo si vede ancora oggi, in Italia il “pericolo fascista” paga sempre.