Di Maio e Salvini imitano Mussolini? Una sciocchezza immane, ecco perché
Fra tutte le novità del Contratto di governo tra Lega e M5S, quella che sembra colpire di più è far discutere anche per il profilo di incostituzionalità che racchiuderebbe – come viene sottolineato- è la nascita di un Comitato di conciliazione. Il Comitato di Conciliazione si dovrebbe affiancare – e in alcuni casi rischia di sostituire e scavalcare – al Consiglio dei ministri, un progetto nelle carte fornite dal professor Giacinto Della Cananea – docente legato al mondo pentastellato – a Luigi Di Maio. Dovrebbe dirimere, detto in soldoni, eventuali e probabili contrasti fra 5 Stelle e Lega. C’è già il Consiglio dei ministri che ha lo stesso scopo. Sono partiti di qui gli strali polemici, fra tutti di chi ha paragonato questo Comitato di conciliazione al Gran Consiglio del Fascismo. Un paragone di provenienza Pd, espresso da Graziano Del Rio.
Paragone improprio, interviene sul Giornale lo storico Giordano Bruno Guerri che al fascismo ha dedicato saggi, studi, monografie. Ecco il giudizio dello studioso: «Il paragone non regge. È vero che il Gran Consiglio era una sorta di doppione del Consiglio dei ministri, creato per ribadire lo strapotere del fascismo e delle sue organizzazioni all’interno dello Stato; in realtà, però, decideva poco o niente, e basti dire che non venne neppure convocato quando fu decisa l’entrata in guerra, il 10 giugno 1940. Al suo interno ci furono discussioni, anche accanite, ma alla fine decideva sempre uno solo, Mussolini. L’unica volta che il Gran Consiglio lo mise in minoranza – il 25 luglio del 1943 – il Duce cadde perché era una decisione già presa dal re e da un gruppo di «congiurati»: senza quella volontà, Mussolini avrebbe semplicemente approfittato della circostanza per distinguere gli amici dai nemici, ed eliminarli. (Con molti auguri al presidente del Consiglio signor XXXXX, a Di Maio e Salvini di non fare la stessa fine con una decisione di Mattarella/re.)».
Veniamo alla composizione del Comitato di conciliazione: ne farebbero parte oltre al presidente del Consiglio dei ministri, sono previsti il capo politico di M5S e il segretario federale della Lega, i capigruppo di Camera e Senato delle due forze politiche. Vengono dunque inseriti in un organo decisionale di governo due capi di partito. Su questi Guerri – e non solo lui – è categorico: non è previsto dalla nostra Costituzione. Si è osservato che, ai tempi, anche «De Mita e Craxi, pur senza essere ministri o capi del governo, decidessero sulle iniziative e le sorti del medesimo. Sì, ma altra cosa è istituzionalizzare questa prassi», osserva Guerri, il quale invece trae un giudizio: «Se un sicuro corso e ricorso storico c’è, è che tutti i governi – più o meno rivoluzionari – tendono a dotarsi di nuove strutture, di nuovi strumenti di comando fatti su misura per governare «meglio»: sarà possibile dire soltanto a posteriori se quel «meglio» era per i governati o per i governanti». Ci sono stati altri precedenti, un direttivo creato da Craxi e, più recentemente, i «Dieci saggi» voluti da Napolitano nel 2013 per elaborare un programma di riforme. «Tutto ciò, però, non ha niente a che vedere con il nuovo Comitato di conciliazione». Allora, due sono le cose: «O i capi due partiti che andranno al governo intendono cambiare le regole del gioco ben oltre i programmi elettorali, con mezzi spicci e soluzioni che andrebbero discusse in Parlamento, in quanto discutibili- deduce Guerri – O i due partiti hanno deciso di dotarsi di uno strumento che risolva le divergenze, senza esporre troppo i rispettivi capi». Ci sarebbe il Parlamento per questo. Ha cercato di ridimensionare le critiche Toninelli precisando che le «soluzioni adottate dal comitato avranno valenza politica ma non vincolatività giuridica per gli organi previsti dalla Costituzione». Che in fondo è un po’ quello che si augura il professor Guzzetta, docente di Istituzioni di Diritto Pubblico a Tor Vergata e convinto: «Se si tratta di un mero accordo politico – spiega – allora ne guadagnerà la trasparenza. Altrimenti sarebbe grave».
Il guaio è che almeno uno dei due capi, cioè Di Maio, è a sua volta teleguidato da una ditta attraverso i responsi del portale Rousseau. Scatole cinesi.