«Macché patti. Riina non avrebbe mai fatto accordi con chi indossa la divisa»
«Riina? Non avrebbe mai fatto patti con chi indossa la divisa. Questa tesi è assurda. E assurdo, per chi ha conosciuto Riina, è immaginare che si sia fatto arrestare». Al processo sulla presunta trattativa Stato-mafia, in corso davanti alla Corte d’assise di Palermo, e avviato dall’ex-pm Antonio Ingroia, oggi indagato dai suoi stessi ex-colleghi, Luca Cianferoni, legale del boss morto lo scorso novembre, esclude categoricamente, durante l’arringa difensiva, che vi possa essere mai stato un patto fra il capomafia e pezzi delle istituzioni, soprattutto se elementi delle forze dell’ordine.
«C’è del marcio nel nostro paese, che vive sui ricatti – ammonisce Cianferoni negando recisamente l’assunto della Procura che presuppone che il boss si sia quasi consegnato – Si è costituto un assurdo, cioè che Riina si sia fatto arrestare. E’ assurdo, per chi ha conosciuto Riina, immaginare che si sia fatto arrestare. Né avrebbe mai fatto patti con chi indossa la divisa. Dimostreremo che è assurdo».
L’arresto di Riina, avvenuto il 15 gennaio 1993 a Palermo, dopo una latitanza ventennale, «è un arresto vero, di un latitante che non ha fatto accordi con nessuno», aggiunge Cianferoni sottolineando come l’episodio su cui la Procura ha costruito il suo teorema, sia, in realtà «uno degli episodi meno oscuri della storia».
Per la Procura di Palermo, invece, quell’arresto fu frutto di un «compromesso vergognoso che certamente era noto ad alcuni ufficiali del Ros come Mori e de Donno» e fu «frutto di un progetto tenuto nascosto a quegli esponenti delle istituzioni e quei magistrati che credevano invece nella fermezza dell’azione dello Stato contro Cosa nostra». La cattura del boss corleonese viene considerata, dai magistati palermitani impegnati su questo processo, lo “snodo” della seconda fase della trattativa tra parte delle istituzioni e la mafia. E sostengono, sotto questo profilo, che Riina venne «consegnato» ai carabinieri dall’ala di Cosa nostra vicina a Bernardo Provenzano.
«Qua nessuno ha fatto una trattativa con Riina – dice Cianferoni – Anche perché se avesse trattato, non avrebbe un figlio condannato all’ergastolo, da 21 anni. E’ una menzogna, ma si è voluta tenerla in piedi».
E sui retroscena del processo dove Totò Riina e il cognato Leoluca Bagarella, sono imputati di minaccia a corpo politico dello Stato, il legale dei due boss si è fatto un’idea precisa: «è il frutto della faida tra i Servizi segreti di Sinistra e di Destra. Da un lato Gianni De Gennaro e dall’altro Mario Mori». «Ricordo bene che un giorno Riina mi disse: “Avvocato, ma insomma, che vogliono da me? Che parlo o che sto zitto?”».
Quanto al famoso “papello“, il foglio con le 12 presunte richieste che Cosa Nostra, guidata, all’epoca, da Riina, avrebbe avanzato allo Stato attraverso l’ex-sindaco Dc, Vito Ciancimino, Cianferoni taglia corto rivolgendosi alla Corte: «signori miei, il “papello” non esiste. Nell’ultima clausola – ricorda il legale toscano – si chiede di togliere le tasse sulla benzina, come in Svizzera. Questa clausola l’ho sempre interpretata come la firma dell’agente segreto che ha scritto questo foglio. Queste cose servono per catturare Riina e non per trattarci. Il problema è arrestare il mio cliente e non farci accordi».
Questo, aggiunge il legale toscano, «è un processo condizionato da scelte culturali e politiche». E attacca il gup che dispose il rinvio a giudizio degli imputati del processo, oggi componente togato del Csm, Piergiorgio Morosini, esponente della corrente di sinistra di Magistratura Democratica: «Mi chiedo perché una persona preparata come Morosini dispose il giudizio – si interroga Cianferoni – fece 50 pagine. Me lo chiedo perché non posso pensare che non sa come si fa un decreto, perché ha fatto questo? Ecco la mia inquietudine. Qui, la partita qual’è? Mi chiedo da cinque anni perché un giudice bravo come Morosini ha fatto questo? Cosa c’è dietro? Non accetto che ci sia solo politica. Non si fa così un decreto di giudizio».
Al termine della sua arringa difensiva, Cianferoni ha chiesto l’assoluzione dei suoi due assistiti, Totò Riina e il cognato Leoluca Bagarella, «perché il fatto non sussiste» sollecitando anche «la nullità del dibattimento» per «effetto della nullità dell’udienza del 28 ottobre 2014» quando venne sentito al Quirinale , nell’ambito del processo sulla presunta trattativa, l’ex-capo dello Stato Giorgio Napolitano: «gli imputati non sono stati fatti accedere al contraddittorio di quella udienza» ma «nessuno dei colleghi difensori ne ha parlato durante le arringhe».
Il processo sulla trattativa tra Stato e mafia «è un non processo, non siamo di fronte a un fatto ma a una ipotesi costruita per essere indagata». «Esaminate le carte – dice l’avvocato fiorentino – questa Corte ha tutto il materiale per mandare le carte a Caltanissetta e ricominciare il processo da capo» perché, a suo avviso, sarebbe la continuazione del processo per la strage di Capaci. «Il discorso dell’omicidio Lima non sta in cielo né in terra», conclude Cianferoni.
La tesi della Procura, invece, è che questo processo «riguarda i rapporti indebiti fra Cosa nostra e alcuni esponenti delle istituzioni». Nel 1992, con il delitto dell’eurodeputato Salvo Lima e poi le stragi, i mafiosi, ipotizzano i pubblici ministeri palermitani, «volevano vendicarsi, ma anche inviare un messaggio di ricatto al governo e alle istituzioni, Cosa nostra cercava la mediazione».
Il pm Roberto Tartaglia nella requisitoria aveva citato le parole del capo di Cosa nostra Totò Riina intercettate in carcere qualche anno fa: «Io al governo gli devo vendere i morti». E poi aveva spiegato perché in questo processo sono sotto processo non solo i mafiosi, come Riina, Brusca, Bagarella, ma anche alcuni esponenti delle istituzioni come l’ex-senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri e gli ufficiali del Ros, i generali Antonio Subranni, Mario Mori, e il colonnello Giuseppe De Donno. Una ricostruzione ottima per un romanzo. E magari anche per una avvincente serie tv. Ma certo non per processare e condannare specchiati uomini delle Istituzioni in un’aula di Giustizia.