Fragalà, l’ira di Cosa Nostra per la denuncia di quella finta vincita al Lotto (video)

27 Mar 2018 19:35 - di Paolo Lami

Una finta vincita al lotto. Per far sparire e ripulire 540 milioni di vecchie lire frutto del traffico di droga della cosca palermitana di Pagliarelli. Parte da qui, dal tesoro personale e segreto del boss Nino Rotolo, ex-braccio destro del boss Bernardo Provenzano e snodo fondamentale dei traffici di eroina della mafia degli anni ’80, il racconto del settantaduenne ex-vigile del Fuoco, Vincenzo Marchese, che ha messo sulla pista giusta gli inquirenti palermitani impegnati a far luce sui retroscena dell’omicidio di Enzo Fragalà, assassinato a bastonate da Cosa Nostra nel febbraio 2010.

Marchese è stato ascoltato in aula proprio il 23 marzo scorso davanti alla Prima sezione della Corte di Assise di Palermo che sta processando sei mafiosi palermitani per l’agguato, a colpi di bastone, contro lo stimato penalista palermitano, docente universitario e parlamentare di An, colpito a morte all’uscita del suo studio la sera del 23 febbraio 2010. E ha ripercorso l’intera vicenda kafkiana del suo incredibile coinvolgimento in una storia di riciclaggio dei proventi del traffico di droga di Cosa Nostra, coinvolgimento che Marchese ha pagato, come prestanome di Rotolo, con la detenzione in carcere per tre mesi, dal novembre 2008 al febbraio 2009, quando viene scarcerato proprio grazie all’impegno di Fragalà il quale riesce a dimostrare che l’ex-sottufficiale dei Vigili del Fuoco è stato ingannato dalla moglie del boss.

E’ l’11 marzo 2010 – Enzo Fragalà è deceduto da 13 giorni all’ospedale Civico di Palermo dov’era stato ricoverato per le gravi ferite riportate nell’aggressione – quando Marchese invia un telegramma in Procura. E chiede di essere ascoltato in relazione all’omicidio del parlamentare di An e penalista palermitano. «Ho ritenuto di dare il mio contributo all’Autorità giudiziaria che procede per l’omicidio Fragalà – spiega Marchese ai magistrati – anche perché all’avvocato mi legava un sentimento di riconoscenza proprio per l’impegno che aveva profuso nella mia difesa».

Ai pm palermitani Nino Di Matteo e Paolo Guido che lo ascoltano, Marchese ricorda che Enzo Fragalà era il suo difensore di fiducia proprio nel processo in cui l’ex-sottufficiale dei vigili del Fuoco era accusato – e processato – come prestanome del boss Nino Rotolo, per intestazione fittizia di beni e quote societarie e per riciclaggio. E ripercorre la vicenda fin dall’inizio. Fin da quando i due, Marchese e Rotolo, giocavano, da bambini, a 14 anni, insieme nel quartiere di Palermo dove entrambi abitavano. Da lì erano divenuti grandi amici. Fino a lavorare insieme e ad aprire un’officina in comune dopo essersi entrambi congedati dai vigili del Fuoco. Si erano, poi, persi di vista nel corso della propria vita. Le strade dei due si dividono. Rotolo si avvicina alla mafia fino a scalarne i vertici.

Nel 1998 Antonietta Sansone, moglie di Nino Rotolo, contatta Marchese. E, in nome della vecchia amicizia, gli chiede la cortesia di ritirare da un Istituto di Credito, la Banca di via Cilea, e gestire il provento di una vincita di 540 milioni di vecchie lire che, a suo dire, il marito avrebbe fatto al gioco del Lotto.
Marchese, dal canto suo, cerca di sottrarsi a questo compito ma le insistenze della moglie di Rotolo alla fine lo convincono. La donna gli dice che non ha altro modo per crescere i figli, se non i soldi di quella vincita. E che con quei soldi deve anche pagare gli avvocati del marito finito in carcere.
E’ lì che Marchese apprende che il suo vecchio amico è stato condannato all’ergastolo. «Io ho creduto ad Antonia – ammette l’ignaro ex-vigile del Fuoco, il 23 marzo scorso, ai magistrati  durante l’udienza del processo per l’omicidio Fragalà – La signora mi ha commosso, mi ha fatto pietà e ho accettato. Ho creduto veramente che fosse una vincita al Lotto anche perché la moglie di Rotolo mi ha dato anche i cinque numeri della cinquina».

Ma qualche anno dopo Marchese viene raggiunto da un avviso di garanzia con l’accusa di aver riciclato quella somma di denaro per conto del boss Nino Rotolo, suo vecchio amico. «Io mi sono preoccupato, non è che potevo andare a cercare la signora Rotolo – ha spiegato ai magistrati – Allora ho scritto una lettera dicendo che ero preoccupatissimo». Ma, nel frattempo, viene arrestato e finisce all’Ucciardone. «Mi hanno interrogato due volte ma nessuno mi ha ascoltato. Volevo spiegare un pochettino ma niente».
Si rivolge così all’avvocato Enzo Fragalà, penalista di spicco del Foro palermitano, che avvia le cosiddette indagini difensive. E scrive a Lottomatica chiedendo se, effettivamente, risultino vincite per 540 milioni di vecchie lire al Lotto a Palermo in quel periodo.
La risposta che arriva è negativa. Nessuna vincita di quell’importo li a Palermo, assicurano da Lottomatica.

Marchese, a quel punto, recrimina alla moglie di Nino Rotolo, Antonietta Sansone, e al figlio Giuseppe di avergli mentito. E di averlo coinvolto a sua insaputa nel riciclaggio del denaro di Cosa Nostra.
Due mesi dopo le richieste di chiarimento avanzate dall’ex-vigile del Fuoco, la moglie del boss scrive una lettera a Marchese ammettendo di averlo ingannato e scusandosi per avergli causato l’avviso di garanzia e, poi, anche l’arresto. La lettera di Antonietta Sansone finisce all’interno di un libro. Marchese se ne dimentica. Verrà ritrovata, per caso, dalla moglie di Marchese, mentre lui è in carcere. E consegnata all’avvocato Fragalà che la farà depositare agli atti invitando Marchese a chiedere un interrogatorio davanti al giudice e,  in quella sede, a produrre il documento.
I magistrati palermitani capiscono che le cose stanno effettivamente così. E revocano la custodia cautelare dell’ex-sottufficiale dei vigili del Fuoco ingannato dal boss Rotolo e dalla moglie.
«Ricordo la prudenza di Fragalà – spiegherà a verbale Marchese ai pm Nino Di Matteo e Paolo Guido – nel ribadirmi che il suo compito non era solo quello di difendermi ma anche quello di tutelarmi da eventuali rischi di ritorsione una volta uscito dal carcere».

La questione è delicatissima, non solo perché producendo quel documento Marchese e Fragalà avrebbero messo a nudo Cosa Nostra e le sue strategie di immersione, dissimulazione e riciclaggio dei proventi criminali ma, soprattutto, perché utilizzando quella lettera, firmata da una donna, la moglie di un mafioso, avrebbero dato una spallata terribile ai codici non scritti delle cosche, dove una visione patriarcale, mai scalfita, non riesce neppure lontanamente immaginare che un mafioso possa essere sbugiardato e anche, in qualche maniera, irriso, perdipiù davanti ai giudici, da una donna oltretutto la moglie di un boss.

E si arriva, così, in prossimità dell’agguato mortale a Enzo Fragalà, a quel fatidico 23 febbraio 2010.
Quattro giorni prima, il 19 febbraio 2010, si tiene l’udienza più importante della vicenda Marchese-Rotolo, con l’arringa appassionata di Enzo Fragalà, in qualità di legale di fiducia dell’ex-sottufficiale dei Vigili del Fuoco tradito dal suo vecchio amico Nino Rotolo.
Fragalà legge e commenta pubblicamente in aula, nel corso dell’udienza, alcuni brani di quella lettera che, se da un lato scagionano completamente il suo assistito, dall’altro rappresentano per Cosa Nostra un intollerabile attacco frontale alla mafia, alle sue regole, alla sua impermeabilità, alla sua solida omertà.

Le cosche incassano, apparentemente senza reagire. Ma l’ira dei mafiosi è alle stelle. E la macchina di Cosa Nostra si mette in moto per portare a segno una vendetta covata da tempo. Fragalà deve pagare, secondo i mafiosi, non solo quel gesto che ha ridicolizzato pubblicamente i clan ma anche il fatto di aver convinto, in passato, alcuni suoi clienti ad aprirsi ai magistrati. Tanto da essere stato definito, negli ambienti carcerari, come riveleranno alcuni detenuti, “curnutu e sbirru“.

Lo confermerà, fra i tanti, anche il pentito Francesco Chiarello la cui testimonianza è oggi alla base del processo in corso per l’agguato mortale all’avvocato: «l’ordine di aggredire Fragalà era stato impartito perché … chistu era un curnutu e sbirru».
Ma lo dirà anche lo stesso Marchese ricordando quando ricevette la visita di Fragalà in carcere: «Mi viene a trovare l’avvocato Fragalà in carcere. Mentre la guardia mi sta per portare a colloquio con l’avvocato, uno dei due che era in cella con me mi dice: “ma qual’è il tuo avvocato? Sbirri e carabinieri…”. Quando sono tornato ho fatto finta di niente. Ma quando andavo a passeggio all’ora d’aria sentivo questo vociare fra i detenuti, che l’avvocato veniva giudicato in questa maniera».
«Dopo il delitto – aveva raccontato deponendo in aula nel corso di una drammatica udienza anche la figlia di Enzo Fragalà, Marzia che ha seguito le orme del padre nell’avvocatura – un cliente di papà, Onofrio Prestigiacomo, durante un colloquio, mi disse che mio padre era definito “avvocato sbirro”».

La sera del 23 febbraio 2010, quattro giorni dopo quell’arringa appassionata e civile di Enzo Fragalà che aveva squassato le fondamenta di Cosa Nostra molto di più di quanto hanno fatto in tutti questi anni certi ridicoli e inutili professionisti dell’Antimafia, girotondini, parolai e convegnisti a gettone, i killer delle cosche raggiungono il legale sotto al suo studio, in via Nicolò Turrisi, alle spalle del sorvegliatissimo Tribunale di Palermo. E lo massacrano a colpi di bastone. La vendetta è compiuta.

Commenti

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  • Pino1° 28 Marzo 2018

    I magistrati antimafia hahahahahah quelli veri li hanno ammazzati !
    Quelli finti fanno i presidenti del ….. ha già, ora non più !

  • Alessandra Botta 28 Marzo 2018

    La mafia, brutta bestia da combattere quanti morti ha già fatto, non hanno coscienza sono animali da macello

  • 28 Marzo 2018

    Ma i giudici che ascoltarono le dichiarazioni di Marchese aspettarono Fragalà per scoprire cosa era successo ?????? Quanta professionalità e voglia di scoprire la verità ! Ma l’Avv. Fragalà non faceva parte del giro degli antimafia professionisti e per di più era di destra…. non serviva scoprire la verità !