Uno Bianca, i fratelli Savi nello stesso carcere. I familiari delle vittime: «Grave ferita»

3 Gen 2018 15:42 - di Redazione

Fabio Savi e il fratello Roberto sono nello stesso carcere a Bollate (Milano). La notizia, alla vigilia della commemorazione dell’eccidio del Pilastro, è confermata dall’avvocato di Fabio Savi, Fortunata Copelli. “Il mio assistito – spiega Coppelli all’Adnkronos – ha fatto solo una richiesta, quella di essere trasferito, ed è stata accolta: è stato trasferito a Bollate (Milano)” dal carcere di Uta (Cagliari). Nello stesso carcere sta scontando l’ergastolo il fratello di Fabio Savi, Roberto. Tornano vicini, dunque, due dei killer della banda della Uno Bianca che tra il 1987 e il 1994 uccise 24 persone e ne ferì oltre cento tra Bologna, la Romagna e le Marche. La banda era composta dai fratelli Roberto, Fabio e Alberto Savi e da Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli. Ciascuno dei fratelli Savi sta scontando l’ergastolo. I due fratelli sono nello stesso carcere da qualche mese. “Da quello che mi risulta non sono nella stessa sezione” dice stringatamente l’avvocato Copelli. Se i due fratelli volessero incontrarsi, la richiesta di colloquio dovrà essere valutata dal direttore del carcere. Nel 2016 Fabio Savi aveva intrapreso uno sciopero della fame nella casa circondariale di Uta (Cagliari) in cui era detenuto per essere trasferito. Aveva chiesto, infatti, un pc per poter scrivere libri, quindi senza collegamento internet, e di poter svolgere un lavoro per mantenersi, tutte cose che si possono ottenere in una casa di reclusione e non in una casa circondariale come quella del Cagliaritano. Il legale di Fabio Savi non ha voluto rilasciare commenti in concomitanza con la commemorazione dell’eccidio del Pilastro. “Non tocca a me” spiega e aggiunge: “Dal punto di vista giudiziario per Fabio Savi non è cambiato nulla, siamo fermi”

A ventisette anni dall’eccidio del Pilastro, nel quale morirono i carabinieri Mauro Mitilini, Andrea Moneta e Otello Stefanini, uccisi dai proiettili della banda della Uno Bianca, “questa è una ferita ancora aperta”. A parlare è Rosanna Zecchi, moglie della prima vittima della banda e presidente dell’associazione delle vittime. “Prima di tutto per coloro che vennero feriti, che quelle ferite le hanno ancora addosso – spiega Zecchi -. La banda sparava con pallottole che si espandevano nel corpo e molti portano ancora i residui di quelle pallottole e, dico la verità, stanno veramente male”. E poi, dice Zecchi, “loro non si sono mai pentiti”. Oltre ai 102 feriti, continua la presidente dell’associazione vittime della Uno Bianca, “ci sono quei 24 morti. La banda ci ha causato un danno enorme. E non è che passi. Si va avanti perché dobbiamo andare avanti, per i nostri figli e per i nostri nipoti, ma dire che si vada avanti bene questo no, non possiamo dirlo”. Il dolore, racconta Zecchi, “c’è sempre, è un dolore continuo”.

In questi anni, racconta la vedova di Primo Zecchi, il coraggioso pensionato che venne ucciso il 6 ottobre del 1990 poiché testimone di una rapina commessa dalla banda, “gli enti territoriali ci sono stati vicino, hanno fatto sì che la cittadinanza ricordasse, così come non hanno mai dimenticato i carabinieri, che 27 anni fa hanno perso cinque dei loro ragazzi, giovani in gamba, trucidati in quel modo senza pietà. Ma chi ha commesso crimini di quel genere deve rimanere in carcere. Io non accetto che ottengano permessi premio e che poliziotti con la divisa abbiano potuto tradire così lo Stato e i cittadini che dovevano tutelare”.   “Io li ho visti in tribunale – spiega Zecchi – nessuno di loro si è pentito, avevano il sorriso sulle labbra e chissà, forse ci schernivano. Noi eravamo lì con le lacrime agli occhi per quello che dicevano, però non ho visto un pentimento e sono convinta che non si siano pentiti”. Per questo, sottolinea, “noi stiamo combattendo questa battaglia: lo facciamo anche per la società civile”.

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