Toghe e politica, quando l’inchiesta giudiziaria criminalizza il consenso
Immaginate se il Parlamento approvasse una legge prescrittiva del nostro abbigliamento e che in forza di ciò un magistrato potesse trascinarci in tribunale con l’accusa di aver calzato scarpe marrone sotto l’abito blu. Cose dell’altro mondo, pensereste un secondo dopo aver riaperto gli occhi. Cose di questo mondo, ribattiamo noi dopo aver letto sul Mattino di Napoli il commento di Massimo Adinolfi sull’inchiesta avviata dalla procura di Napoli Nord su un presunto voto di scambio avvenuto nel 2015 e che ruota intorno al deputato di Forza Italia, Luigi Cesaro e a suo figlio Armando, consigliere regionale.
Un articolo del Mattino fa le pulci all’inchiesta sui Cesaro
Abbiamo ormai fatto il callo ad inchieste molto avare di contestazioni giuridiche circa i rilievi penali della condotta indagata e, nello stesso tempo, ben fornite di considerazioni mirate a coglierne sfumature comportamentali capaci di suscitare la pruriginosità dei media e di apportare conseguentemente consenso sociale a chi le ha avviate. In tal senso, stando almeno ai virgolettati citati da Adinolfi, questa sui Cesaro rappresenta indubbiamente un salto di qualità. Vi si trovano infatti annotate considerazioni che non sfigurerebbero in un trattato di sociologia politica o in un reportage giornalistico, ma che mai penseremmo di trovare negli atti di un’inchiesta. Ma è proprio grazie a loro che tutti sanno (o possono sapere) che Cesaro figlio si è candidato ed è stato eletto senza «un sia pur minimo programma politico» e come egli non coltivasse «alcun progetto» risultando quindi del tutto «impreparato al delicato incarico», come dimostrerebbe la circostanza di aver accettato l’invito di un comitato di agricoltori «senza sapere bene di cosa dovesse parlare». E si potrebbe continuare.
Opinioni al posto dei fatti: la nuova strategia dei pm
Che cosa vi sia di penalmente rilevante in tutto questo lo diranno le successive fasi dell’indagine. Quel che salta agli occhi, però, è la sempre più chiara intenzione di alcune toghe di voler esercitare – parole di Adinolfi – «un controllo giudiziario sulla pubblica decenza» mescolando ipotesi criminose a considerazioni di opportunità e ben sapendo che sono queste ultime a legittimare le prime nella pubblica opinione e a resistere ben oltre la durata dell’inchiesta e l’esito dell’eventuale processo. Insomma, è come se la magistratura si fosse autoincaricata di correggere il processo democratico dichiarando unfit, cioè inadeguati, candidati a suo giudizio non meritevoli del consenso popolare. Per molti è anche giusto. C’è solo da sperare che non siano gli stessi che un giorno sì e l’altro pure se la cantano e se la suonano con le magnifiche sorti e progressive della democrazia liberale, della separazione dei poteri e dello Stato di diritto.